di Lorenzo Meloni
A un certo punto era sembrato che non dovesse arrivarci mai, invece No Time to Die è finalmente al cinema. Schiere di fan possono congedarsi da Daniel Craig come si confà alla tradizione di grandeur di 007, ma soprattutto soddisfare una curiosità spasmodica che in certe frange puriste si può star certi sconfinasse nell’ansia. Sì perché da Spectre (2015) secondo e deludente contributo di Sam Mendes alla saga, sono passati la bellezza di sei anni. Sei anni in cui la terra sotto i piedi dell’agente segreto con licenza di uccidere ha tremato come forse non era mai successo; anche prima che la pandemia congelasse questo Bond numero 25, costringendo un Craig da tempo ai ferri corti col personaggio a un lungo addio che ne consolida il vantaggio su Sir Roger Moore come sua incarnazione più longeva.
Per capire il perché, nel caso ultimamente foste vissuti sotto una pietra, basta aprire i social e sintonizzarsi col buzz che da sessant’anni accompagna ogni passaggio di testimone da un attore bondiano all’altro. 007 sarà ancora bianco? Sarà ancora etero-cis? Sarà ancora uomo? Se questo genere di domande non testimonia una rivoluzione copernicana dei costumi assolutamente niente lo farà. E si dà il caso che Bond – icona di stile probabilmente impareggiabile nell’intera cultura pop – dei costumi sia sempre stato una specie di cartina tornasole (sovr)umana, un camaleonte capace di rivestire la propria inconfondibile silhouette dei colori di epoche tra loro diversissime. Che fare però quando l’epoca in corso, lungi dal limitarsi ad aggiornare la collezione in vetrina, sembra voler mandare in pensione il modello?
È proprio un problema di modelli quello posto nel 2021 al team produttivo che fu Broccoli & Saltzman, oggi Wilson & Broccoli. Modelli di mascolinità, s’intende, quella che erroneamente si ritiene accettata a braccia aperte urbi et orbi fin da quando Sean Connery mormorò per la prima volta un suadente “Bond.. James Bond” nel 1962 (e invece tanti genitori all’epoca gli davano del depravato) ma che costituisce innegabilmente una delle eredità più durature e problematiche del franchise più duraturo e problematico della storia del cinema. Dopo quanto successo nell’ultimo lustro in termini di questioni e rappresentazioni di genere non basta più strizzare postmodernamente l’occhio ai critici come in Goldeneye (1995) dove M/Judy Dench dava a James/Pierce Brosnan del “dinosauro misogino” riconoscendo le prime crepe nell’affresco.
Bond però ha la pellaccia dura. Non è vero che si vive solo due volte, e le esplosioni e fughe rocambolesche a cui è scampato nelle sue avventure più incredibili impallidiscono di fronte ai cambiamenti che ha dovuto e saputo sopportare per insidiare il traguardo delle sessanta candeline. Azzimato gentiluomo dell’upper class inglese, rischiò subito presso i fan fleminghiani della prima ora presentandosi con l’immagine rude e sensuale dello scozzese Connery. Mito legato a doppio filo al bipolarismo della Guerra Fredda, ha faticato non poco a ritrovare il senso del proprio esistere nel mondo successivo alla caduta del Muro. Intanto sulle sue ginocchia non più agili come una volta (in No Time to Die si accenna scherzosamente al “ginocchio che ti funziona ancora”) ha iniziato a gravare il peso della concorrenza di giovincelli idealmente suoi figli, i vari Ethan Hunt, Jason Bourne ecc..
Sì, ma stavolta il pericolo è ancora più serio. Senza poter presagire i repentini sviluppi recenti l’era Craig aveva già fatto molto per stornarlo, rompendo la tradizione autoconclusiva e solipsistica della serie (precedentemente turbata solo di rado da increspature emotive, come nel giustamente rivalutato Al servizio segreto di sua maestà) per iniettare nell’universo bondiano un modus cogitandi da vera e propria saga. Nelle mani dell’attore, uno dei due soli inglesi a interpretare questo baluardo dell’orgoglio british, Bond si è distaccato vistosamente – e per chi pensa che “i modi definiscono l’uomo” imperdonabilmente – da tanti suoi vezzi e paramenti classici, non curandosi se il Martini fosse shaken or stirred, guidando auto che Moore non avrebbe sfiorato neanche con un bastoncino e riducendo drasticamente il numero di conquiste amorose.
Ancor più cruciale, in questo frangente storico e momento di chiusura di un cerchio, il personaggio ha acquistato un’interiorità e un profilo biografico, concedendosi ironici ammiccamenti queer, ma soprattutto il lusso ben poco “maschio” (nel senso lupesco dei predecessori) di amare. Su queste nuove fondamenta costruisce la sceneggiatura degli inossidabili Purvis e Wade coadiuvati dallo humour di Phoebe Waller-Bridge, solidissima come tutto il film ma a forte rischio di scontentare quella parte di fandom già incrinata dagli ultimi sviluppi umanizzanti. No Time to Die è lo 007 più corale di tutti i tempi, con James come cuore pulsante di un mosaico di figure secondarie in molti casi familiari, ma che da segni di stile si fanno forse per la prima volta compiutamente rete sociale/affettiva.
Di più non possiamo e non vogliamo dire. Fatto sta che è evidente come l’ultima corsa di Craig miri a porsi, nei modi di un manifesto a tratti piuttosto radicale, come vettore direzionale per il futuro della saga. Futuro che se il buon giorno si vede dal mattino potrebbe portare 007 ancor più lontano dall’originario cocktail “agitato” di spietatezza e ironico cinismo, consegnandolo a una dimensione che – se difficilmente potrà rilanciarlo come trendsetter della mascolinità contemporanea – gli consenta come ha sempre fatto di evolversi e sopravvivere con successo. Non resta che aspettare e tirare magari ancor meglio in seguito le somme di questi ultimi vent’anni di Bond, che finora ci sono sembrati un’anomalia ma che potrebbero invece essere il perno di un cambiamento duraturo e di una seconda giovinezza di cui l’irregolare Craig potrebbe rivelarsi, come Connery prima di lui, una nuova matrice.