di Lorenzo Meloni
Da quando, ormai quattro anni fa, si diffuse la notizia che Denis Villeneuve avrebbe diretto per Legendary Pictures un nuovo adattamento di Dune, l’impressione di molti è stata subito di notevole rischio. Innanzitutto produttivo, perché il romanzo di Herbert, per quanto popolare oltreoceano e capolavoro riconosciuto del genere fantascientifico, non sembrerebbe offrire sicurezze di rientro economico tali da giustificare un budget spropositato di centosessantacinque milioni di dollari, specie dopo quanto fatto dal primo adattamento a firma David Lynch - tra i più celebri flop della storia del cinema - per gettare sul materiale di partenza una nomea quasi senza pari di infilmabilità e veleno al botteghino. Completava la ricetta di fallimento annunciato il fatto che il nuovo film sarebbe stato una prima parte tronca, diretta dal regista che immediatamente prima aveva perso una scommessa quasi identica con Blade Runner 2049, anche quello costosissimo, lunghissimo enon conclusivo. Togliamo tutto questo, togliamo anche il momento di crisi nera attraversato dall’industria cinematografica: resta comunque la pura e semplice sfida di adattare un’opera fluviale, tortuosa e decisamente “d’altri tempi”. Villeneuve sarebbe riuscito dove un maestro (svogliato quanto si vuole) era crollato in modo così rovinoso?
La risposta, che alla Mostra di Venezia aveva iniziato a serpeggiare tra euforia e un pizzico di stupore, pare proprio essere “sì”. Di sicuro sul versante artistico. Forse anche su quello editoriale, o almeno, quanto più vicino possibile a riaccendere la speranza di un responso di pubblico tale da permetterci di vedere un giorno la seconda parte. Non solo infatti Dune – parte 1 è ad oggi di gran lunga l’opera migliore di Villeneuve, quella dove tutte le sue cifre stilistiche di regista/sceneggiatore trovano terreno fertile per esprimersi nel modo più congeniale; più di qualunque pezzo di bravura, a convincere senza riserve è la capacità sua e del team produttivo di credere ciecamente nel materiale di partenza come capace di trovare posto nella contemporaneità,per poi farci uscire dalla sala con la convinzione che fosse la cosa più semplice e naturale del mondo. Villeneuve & Co dimostrano di capire alla perfezione in cosa differisca oggi la narrazione del fantastico (sci-fi come fantasy) rispetto al 1984. In quell’epoca di prodigi visivi scaturiti dall’esplosione dell’effettistica speciale una fantascienza anticheggiante e ad alta densità politica come quella di Dune poteva sembrare datatissima, ma oggi, in epoca di reciproco avvicinamento fra cinema e televisione, quando il grande spettacolo visivo alla Star Wars non è più garanzia di successo e dominano universi espansi di confine come Game of Thrones ed MCU, è tutto un altro paio di maniche.
Proprio lo show dei record targato HBO costituisce un buon esempio del tipo di operazione compiuta in fase di sceneggiatura - di una chiarezza e consequenzialità drammaturgica che fanno sembrare quasi impossibile la provenienza comune col film di Lynch: Dune-secondo-Villeneuve è intrigo interplanetario, congiura di palazzo, tradimento (e Jason Momoa) proiettati su uno stilizzato ma costantemente plausibile e stimolante world building pseudo-medievale, quello che nell’altro adattamento lasciavano subodorare praticamente solo le stupende scenografie. Malgrado la parentela superficiale che risulta dal cocktail di elementi simili (e del resto Dune ne era stato fra le principali influenze) lo “sci-fantasy” che ne risulta non ha molto dell’epica cavalleresca alla Star Wars, potendo tutt’al più ricordare la gravitas della trilogia prequel (1999-2005) rispetto alla quale però indovina meglio l’equilibrio dell’elemento parlamentare con le necessità di un racconto epico capace di trascinare, elettrizzare e commuovere. Vengono in mente certi esempi – i migliori – di adattamenti shakespeariani, magari proprio di quel Kurosawa che era già prepotentemente presente nei capolavori di Lucas, e che qui torna in certe pose statiche ed elementi di design come i vessilli dalle forme slanciate che fendono l’aria durante le cariche di fanteria.
Tutto questo per dire che il nuovoDunenon costituisce affatto un mero ripiegamento della fantascienza mainstream su logiche televisive, ma è al contrario un film che può e vuole rimettere sulla mappa contemporanea – quella mappa dai confini sfumati dove grande e piccolo schermo si avvicendano su terreno via via più comune – un’idea di messa in scena cinematografica radicale, ponderosa e dal grande impatto audiovisivo, capace contemporaneamente di mettere il dito su questioni sociopolitiche di scottante attualità e di farsi come in passato veicolo di grandi narrazioni. Mai come ora il successo non è assicurato. Mai come ora è necessario, giusto, auspicabile. Dita incrociate. Ci rivediamo su Arrakis.