di Lorenzo Meloni
Primi anni ‘60: una squadriglia di bombardieri americani punta contro Mosca. Irraggiungibili dal Pentagono, forse per un guasto ai sistemi di comunicazione, si preparano a sganciare sull’Unione Sovietica ordigni termonucleari. Mentre la base si adopera in tutti i modi per scongiurare l’attacco, il presidente (Henry Fonda) negozia al telefono col premier russo. È la trama di A prova d’errore (Fail-safe, 1964) ma sfortunatamente è anche, millimetro per millimetro, quella di Il dottor Stranamore (1964). Il resto è noto, la “stravaganza geniale” di Kubrick si impone come uno dei film capitali del decennio nonché la massima rappresentazione cinematografica del clima atomico - quando l’apocalisse è nell’aria e non si sa se avere più paura degli Altri o della follia dei Nostri, col dito sul bottone in remote stanze del potere. Come un gemello nato morto il thriller fantapolitico di Sidney Lumet viene risucchiato in quell’orbita irrestistibile, al punto che ancora oggi sembra se ne possa parlare solo per comparazione, per luce riflessa.
Se il confronto è davvero inevitabile, incentivato dall’emergere di tematiche comuni quali la progressiva disumanizzazione di una civiltà-macchina che sembra uscita dai peggiori incubi della scuola di Francoforte, A prova d’errore può prendersi la “rivincita” facendo valere la sua specificità di film quasi opposto a Stranamore per coscienza storico-antropologica, capace di entrare in dialettica col capolavoro di Kubrick e restituire un senso ben diverso, nell’apparente sintonia, di cosa poté significare vivere, temere, sperare in quegli anni. Altrettanto capace di portare alle estreme conseguenze il proprio messaggio, come dimostra un finale (vedere per credere!) forse perfino più inaudito nella sua sobrietà del rodeo dell’ufficiale Kong a cavalcioni della Bomba, il film di Lumet risulta a sua volta fondamentale per mettere in prospettiva il periodo, capace di ampliare gli orizzonti oltre il perentorio nichilismo kubrickiano e offrire soluzioni forse più aspre e terribili di qualunque resa apocalittica.
Almeno due linee principali connettono A prova d’errore al resto dell’opera di Lumet: da una parte, quasi come in un seguito di La parola ai giurati, la sua poetica del confronto, reso ineludibile da ambientazioni chiuse che impongono ai personaggi una vicinanza conflittuale quanto proficua, verbale e se necessario fisica. La sua regia claustrofobica fa nuovamente convergere volti, gesti, anime, minando poco a poco l’impersonalità robotica imposta dai ranghi, dai protocolli militari e dalla tecnologia. Attacco a una distanza sempre più preoccupante dal mondo vissuto, nel cui ritratto l’autore riversa tutti i suoi dubbi sulla civiltà dell’immagine (ricordate Quinto potere, ma anche la differenza fra il calore umano all’interno e la “qualità mediatica” della realtà all’esterno della banca in Quel pomeriggio di un giorno da cani). Questi soldati vedono il mondo solo attraverso i loro radar, e non a caso uno di loro ha il sogno ricorrente e premonitore di una corrida, simbolo per antomomasia di violenza elevata a spettacolo, proprio nel periodo in cui “la distanza fra consumatore passivo e partecipante attivo si assottigliava (...) i film potevano essere eventi politici, e i fatti politici venivano esperiti come film” (J. Hoberman).
Squarcio spaventoso su un mondo di completa atrofia comunicativa, incapace di arrestare una corsa verso l’autodistruzione programmata chissa da chi e perché, A prova d’errore tiene incollati alla poltrona e addirittura commuove per la sua ricerca disperata di un fuoco sotto la cenere, di un cuore ancora pulsante da qualche parte fra valvole e circuiti. Contro l’ironia kubrickiana, il grottesco senza appello, la presa d’atto del disumano e dell’assurdo come sostrato della civiltà nei secoli dei secoli, lascia con un grido d’aiuto e la speranza di una risposta.