di Luigi Ercolani
C'è Ronald Reagan, c'è Bruce Springsteen, ci sono i Ghostbusters, c'è Axel Foley, e più in generale c'è tutta la cultura anni Ottanta permeata da un edonismo pantagruelico ed una joie de vivre concentrata sull'immediato, perché del doman non v'è certezza, come scrisse Lorenzo de' Medici. C'è tutto questo e molto altro, perché lo spettatore fin da subito deve riuscire ad acclimatarsi, entrando psicologicamente in un'epoca diversa dalla sua per riviverne il contesto, gli eventi, la forma mentis.
C'è tutto questo, sì, ma soprattutto c'è lui, Michael Jordan. Il quale nel decennio successivo è stato poi capace di travalicare il mondo della pallacanestro ed imporsi come icona pop globale, risultato raggiunto grazie sia all'esplosione del marchio Nike che, soprattutto, all'uscita di quello che è il film di pallacanestro per antonomasia, ossia Space Jam (Joe Pytka, 1996), rimasto nell'immaginario collettivo di molti dei giovani dell'epoca e ancora oggi vero e proprio cult.
Per arrivare lì, però, ci sono voluti impegno, dedizione, sacrifici, tempo, fallimenti e tanti record personali che però non si traducevano mai nella vittoria più ambita, quella del campionato. Lo stesso Jordan, d'altronde ha detto: “Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento partite, ventisei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l'ho sbagliato. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto”. Per arrivare lì, insomma, c'è stato bisogno di inseguire un sogno.
È proprio questo il cuore di Air: il sogno, l'aspirazione che si fa ossessione, il traguardo da tagliare quando nessuno ci crede, e anzi, lo scetticismo diventa anzi propellente in più per raggiungerlo. Michael Jordan di questa mentalità è stato un autentico simbolo, ma il lungometraggio ribalta le parti in causa e fa viceversa del giocatore un oggetto del desiderio, di un affannato inseguimento guidato da una sensazione, da un istinto, da un feeling inesplicabile ma martellante.
Il Sonny Vaccaro interpretato dal sempre puntuale Matt Damon è esattamente questo, uno con mentalità jordaniana prima ancora che Michael Jordan diventasse quello che è diventato per tutti. Nel film His Airness appare poco, mai direttamente, ha due o tre battute, eppure questa produzione è talmente impregnata di jordanesimo fino al midollo da non lasciare alcun dubbio su chi sia il vero protagonista di questa storia.
È paradossale, ma persino la Nike appare in seconda fila rispetto all'icona Jordan: certo, per certi versi questo film per l'azienda è lo spot di due ore che era lecito attendersi sarebbe stato, ma allo stesso tempo lo è meno di quanto le aspettative iniziali avrebbero in realtà lasciato supporre. Prima ancora degli squali del business, prima ancora dei principi aziendali, prima ancora della nostalgia per un tempo di benessere ormai svanito, in Air domina una figura che, malgrado sia celata (anzi, magari proprio per questo) è dominante su tutti gli altri attori in campo.
Volendo sintetizzare ed utilizzando un linguaggio manageriale, nel lungometraggio ci sono una mission e una vision, in un rapporto di variabile indipendente e dipendente. La mission è quella di Michael Jordan di diventare il più grande giocatore di pallacanestro vivente, la vision è quella della Nike quando crede fortemente alla realizzazione dell'ambizione di Jordan.