di Luigi Ercolani
Il 26 gennaio 2020 al panificio di Ditrau vengono assunti tre lavoratori provenienti dallo Sri Lanka: la popolazione locale inaspettatamente si ribella, esprimendo il timore che essi possano imporre la loro cultura e minacciare l'identità etnica. Tanto l'azienda quanto, soprattutto, i dipendenti cingalesi, subiscono pressioni a vari livelli, tant'è che questi ultimi sono poi costretti a trasferirsi nella più grande città di Gheorgheni.
Per il suo ultimo film Animali selvatici Cristian Mungiu parte proprio da questo evento e lo sviluppa in maniera più ampia ed articolata, per toccare questioni che nell'Est Europa sono alquanto sentite. Il regista romeno, infatti, porta in scena per l'opinione pubblica internazionale la mescolanza di etnie, linguaggi, culture tipica di quella parte del Vecchio Continente che funge da prima frontiera con l'Asia.
Proprio come accade in tutte le terre di confine (chiaramente a volte di più, a volte di meno, a seconda della sensibilità locale), specie quelle che hanno dovuto far fronte a minacce provenienti dall'esterno anche qui l'elemento allogeno è trattato con diffidenza, quando non proprio percepito aprioristicamente come un pericolo. Riportando fedelmente tale mentalità ma sottolineando in maniera negativa questo fatto, Mungiu sembra tuttavia non voler condannare in toto tale atteggiamento.
La sua intenzione appare anzi quella di spiegare a chi guarda, specie se estraneo a tale forma mentis, che di questo tipo di timore vanno anzitutto comprese le ragioni, che sono innervate in una cultura millenaria di perenne difesa. In modo sottile il regista invita lo spettatore europeo, specie quello più privilegiato e sensibile sulla questione dell'accoglienza, ad abbandonare il proprio punto di vista e ad assumere quello di chi, per propria cultura, ha sempre vissuto dovendo far fronte a minacce esterne.
Il rapporto contrastato tra comunità ed esterno, tuttavia, è declinato da Mungiu anche attraverso un'altra ottica, meno immediata. Nel momento in cui la comunità di Animali selvatici è chiamata ad esprimersi sulla presenza dei tre lavoratori emerge altresì la diffidenza verso le istituzioni europee: la maggioranza del paesino puntualizza infatti che, pur avendo goduto di sovvenzioni, non si sente minimamente considerata inesistente dall'Occidente, di fatto considerando una minaccia anche quella proveniente dai palazzi Bruxelles.
In questo senso, inserendo nella narrazione anche la questione dei lavoratori europei orientali costretti a spostarsi nei paesi più ricchi del continente per avere un salario dignitoso, Mungiu codifica una critica neanche troppo velata al sistema economico europeo, che, con le sue politiche neo-liberiste ha generato una massa di manodopera a basso costo. Lo sfruttamento dello straniero risulta quindi in scala: come i cittadini dei paesi del Terzo Mondo si accontentano di paghe ritenute inadeguate da dell'Est Europa, così questi ultimi a loro volta si accontentano di paghe inadeguate nelle aziende dei paesi dell'Europa benestante, dando vita ad una catena alimentare che finisce ovviamente per andare a vantaggio dei più abbienti.
Il regista romeno invita perciò a mettersi nei panni altrui, a capire senza giudicare, e ad abbandonare un punto di vista più agiato e dozzinale che tratta con sufficienza le problematiche dei contesti locali. Presuntuosamente, allo stesso tempo, minimizzando le proprie pur evidenti responsabilità.