di Luigi Ercolani
Il cinema delle origini, quello si dipana lungo i primi pionieristici tentativi di fine Ottocento di dare una forma all'arte delle immagini in movimento, si divide in due grandi tronconi: il “cinema della realtà” promosso dei fratelli Lumiére, che è tendenzialmente non narrativo, e il “cinema delle attrazioni”, il cui massimo esponente è invece Méliès. Quest'ultimo propone invece un tipo di diegesi diversa, fatta di tante immagini spettacolari, spesso non contigue tra loro, e di mondi fantastici ma dotati di una certa coerenza interna.
Nel 2009 Avatar aveva, a suo modo, ripreso il concetto del cinema delle attrazioni, riportando sullo schermo una fantasmagoria ripetuta. Quello che era stato salacemente definito come “Pocahontas nello spazio” era in realtà un cinema che si rifaceva direttamente alle radici della cinematografia, che riempiva gli occhi, ed in cui lo spettatore viveva sensazioni da montagne russe pur rimanendo fisso al suo posto.
A tredici anni di distanza, Avatar-La via dell'acqua replica questa esperienza, e anzi, per certi versi la polarizza. Le maggiori capacità tecniche conferiscono a questo sequel una sensazione di immersività ancora maggiore rispetto al primo episodio, tant'è che l'impressione è di essere dentro non ad un videogioco (altra critica più o meno velata mossa all'universo ideato di Pandora), ma ad una vera e propria realtà virtuale.
Se poi a questa esperienza totale si unisce la spettacolarità dell'azione che da sempre James Cameron è superbo nel cesellare, ecco che, rispetto ad Avatar, il sequel si avvicina ancora di più al concetto di cinema delle attrazioni. Chi guarda viene non più stupito, ma letteralmente ammaliato: il caleidoscopio di colori, il gioco di luci e ombre, gli scontri e le esplosioni risultano un unico, uniforme, patchwork al servizio degli occhi e, attraverso questi ultimi, dei gangli sensoriali dello spettatore.
Il nemico ultimo dello stupore è, tuttavia , l'abitudine, e una volta che l'illusionista ha mostrato o ripetuto i suoi trucchi il pubblico li memorizza e, quindi, se ne annoia. Ed in effetti, rileggendo lo snodarsi della storia della cinematografia, ci si accorge di un fatto incontrovertibile, ovvero che il cinema delle attrazioni ad un certo momento fu superato perché lo spettatore chiedeva di essere non solo stupito, ma anche intrattenuto: serviva fare quel passo ulteriore, quella capacità di sviluppare una linearizzazione narrativa che poi arrivò con Edwin S. Porter e poi, soprattutto, con David W. Griffith.
La controindicazione di Avatar-La via dell'acqua è proprio la lacuna di step: la storia è un già visto, una riedizione del mito del “Buon Selvaggio” di Jean Jacques Rousseau che racconta che i cattivi sono gli statunitensi colonizzatori, ma senza crederci davvero. Oltre a ciò, la metafora ecologica è sfumata, i dialoghi sembrano strizzare l'occhio ad un pubblico teen ma così facendo risultano surreali, l'invito a capire le altre culture necessita di una cooperazione interpretativa eccessivamente forzata da parte dello spettatore, che altrimenti sarebbe spesso lì a chiedersi quale logica abbiano certe azioni compiute dei personaggi.
Avatar-La via dell'acqua, in altri termini, è veramente puro cinema delle attrazioni, con tre ore di grande enfasi sulla qualità dell'immagine a fronte della povertà della storia. La scelta se uno spettacolo di questo genere può piacere o meno dipende, qui più che in altri casi, dai gusti dello spettatore.