di Lorenzo Meloni
"Mi era mancato questo frivolo ottimismo" dice Robert Downey Jr./Tony Stark nei primi minuti di Avengers: Endgame; quanto accade nelle tre ore successive non farà che riecheggiare le sue parole. Il film è un gigante molto più gentile del precedente, quell'Infinity War che non prendeva prigionieri muovendo alle lacrime le schiere dei Marvel-fan, abituati da undici anni al modello in assoluto più mite di superhero movie. Ora tutto rientra, con una forza catartica direttamente proporzionale a quella apocalittica scatenata due anni fa dallo schiocco di dita di Thanos; ma c'è un nemico più insidioso di lui, uno con cui oggi capiamo che il team di Kevin Feige era destinato a scontrarsi dal primo momento in cui fu chiaro che il Marvel Cinematic Universe giocava a fare Dio con le leggi dell'esperienza audiovisiva. Nemesi scaturita fatalmente dal genio, come sperimentato in passato dallo stesso Tony impotente davanti alla tracotanza del suo doppio malvagio Ultron. Un villain così "alle porte" da doverlo esorcizzare già nel titolo: la Fine.
Fine di cosa? Non certo del modello Marvel-Disney, malgrado la retorica millenarista di questi maestri dell'hype, già ampiamente esercitata in Infinity War. Anche senza altri quattro film in cantiere, basterebbe assistere a una qualunque proiezione di Endgame per accorgersi che non può esistere nulla di più presente. Tifo da stadio con urla e applausi, l'aria che vibra un attimo prima delle scene clou, decine di persone che esultano e piangono all'unisono. Follia? Au contraire, la prova incontrovertibile che non solo si è affermato un genere (e ancora c'è chi aspetta che "passi la moda"..) ma è nato un nuovo paradigma. Mentre tanto cinema mainstream si ammutina al dominio dello sguardo per farsi più discorsivo, letterario e quindi secondo le categorie tradizionali "televisivo"; mentre la TV si fa intrigare dalla brevitas e sperimenta logiche di racconto visivo sempre più "cinematografiche"; questo universo ibrido fatto di unità filmiche intrecciate in una logica inconfondibilmente seriale - favorito dalla vocazione globalistica nata col clamoroso buildup verso The Avengers (2012) e dalla virtualmente illimitata fluidità visiva, ambientale, narrativa del genere supereroistico - si pone come operazione di assoluta avanguardia, la cui scia di cometa (per ora) lontana è oggi la più credibile indicazione vettoriale di futuro nel doppio processo di avvicinamento appena descritto. Ma qualcosa con Endgame finisce davvero: ventidue film in un decennio, archi narrativi ampiamente sfruttati, contratti che scadono, attori non più nel fiore degli anni che scalpitano per una boccata d'aria nuova; si esaurisce un ciclo, e in mani meno esperte poteva essere un disastro. Ormai i realizzatori conoscono bene la loro creatura, nata per caso dall'idea estemporanea di affidare a Samuel L. Jackson quella prima scena post-credits in Iron Man (2008). Sanno quanto ha in comune con la serialità televisiva, capace, per virtù di sviluppo orizzontale e continuità nel tempo, di creare fra personaggi e pubblico un legame ombelicale che può incendiare d'emozione la sala nel modo che dicevamo, ma rende l'addio una faccenda delicata e potenzialmente traumatica con cui nessuna saga cinematografica aveva mai dovuto fare i conti.
La sfida è quindi duplice, e spacca idealmente il film: da un lato deve chiudere i giochi, dare il senso di compiutezza nel modo più epico e rutilante possibile, sul modello - evidentissimo nel terzo atto e sensato anche in vista di una probabile corsa agli Oscar - di Il Signore degli Anelli - il ritorno del Re (2003); dall'altro deve cullare, consolare, tenere per mano spettatori a cui è destinato in ogni caso a fare male, in un ancor più colossale abbraccio terapeutico da famiglia allargata che lo fa assomigliare per toni dolce amari all'episodio finale di una sit-com. E come nelle sit-com è d'uso dedicare puntate alla rievocazione nostalgica di momenti notevoli del passato, ecco che Endgame diventa soprattutto una panoramica sui ventidue film precedenti, con la bellezza - secondo i calcoli di esperti e appassionati - di 209 riferimenti interni fra citazioni di dialogo, "easter egg" e rielaborazione di intere sequenze.
Inutile dire che al neofita, come a chi non ha fresca la memoria di almeno i capitoli principali, non conviene avvicinarsi senza prima un bel ripasso. Era già dura, da una prospettiva tradizionalmente cinefila, accettare che Infinity War potesse colpire visceralmente per motivi che nemmeno si preoccupava di esibire, perchè si trovavano sparpagliati lungo dieci anni di film. Che dire di Endgame, che non solo li presuppone ma li addita esplicitamente nel gioco dei ricordi? È il lato di rottura in un fenomeno che viceversa, per il tipo di accoglienza e partecipazione empatica, ha anzi una certa aria di ritrovata classicità. Solo che le conoscenze pregresse indispensabili allo spettatore stanno come in TV nella trama orizzontale, anziché in un'iconografia di genere o nelle specifiche di un certo attore o attrice. Del resto, poteva lo spettatore di Il mistero del falco (1941) "capire" Bogart senza averne prima inconsciamente decodificato la semantica di gesti, espressioni, vestiario?
Classica o no, l'esperienza-Endgame resta cinema. E di cinema si nutre, come sempre in casa Marvel. La fantascienza per esempio, nell'accezione shelleyana che mette in guardia dall'arroganza del Genio-Miliardario-Playboy-Superuomo, è sempre tornata utile a un universo che ha per codice morale il Gruppo, e teme (ma è il 2019 o sono gli anni '50?) l'individualità quando questa non sa rientrare in una logica collettiva. Alien, Terminator, Jurassic Park, La Cosa, King Kong, Men in Black, Star Wars e Frankenstein hanno tutti fatto capolino nel corso degli anni per ricordarcelo. Ma oggi è tempo di nostalgia, e forse in effetti ci andiamo negli anni '50: è tempo di Ritorno al futuro. Nominato e rivisitato innumerevoli volte, del capolavoro di Zemeckis basta il titolo a rendere a perfezione l'idea di nostalgia futuribile, di andare avanti guardando indietro, che permea tutto Endgame. La citazione iniziale di Tony non è in realtà che il primo di questi riferimenti: lui dice "mi era mancato questo frivolo ottimismo" e noi spettatori, stando al gioco, sentiamo il nostro (in futuro) "mi mancherà". Iron Man, Captain America, Thor, Vedova nera, Hulk, Occhio di falco. Fra vicende alterne (e almeno tre di loro con ancora tanto da dire) devono lasciare il posto alla prossima generazione di eroi. Come celebrare queste persone - perché tali sono, l'abbiamo detto, agli occhi del loro pubblico naturale - senza che gli individualismi incrinino l'equilibrio della pòlis? Scommettiamo che sulla bacheca di Kevin Feige questo problema stava al centro, scritto bello grande e in indelebile rosso. La soluzione, come tutto in questi film, si declina al plurale. Quindi sei strade - anzi sette, perché anzitutto creiamo un contrappeso rivedendo in peggio la figura un po' troppo ascetica e sensata dell'ambientalista Thanos, che stavolta dice "me la godrò a distruggere il vostro pianeta". Per gli Avengers al contrario indirettezza, sobrietà, sottrazione culminanti nel magistrale fuori campo swing dedicato dai fratelli Russo a quello che era sempre stato il loro preferito. A uno solo infine sarà concesso dire "Io.." ma soltanto, con ineffabile coerenza, perché in quel momento è tutti noi.