di Luigi Ercolani
In principio fu Viale del tramonto... No, non è vero, perché in effetti Hollywood aveva iniziato a riflettere su sé stessa ben prima dell'opera di Billy Wilder, datata 1950. Diciamo però allora che, come capacità di mettere radici nell'immaginario collettivo, il film con protagonista Gloria Swanson è stato il vero antesignano di tanti epigoni che si sono poi succeduti.
Hollywood che parla di Hollwood di fatto è cominciata lì, e forse non è casuale che a fare luce sul tema sia stato un regista nato nei territori dell'attuale Polonia. Ovvero un estraneo, almeno rispetto ad un contesto che, nel Secondo Dopoguerra, era già diventato quel mondo allo stesso tempo adorato dalla classe lavoratrice e guardato con sospetto dalle alte sfere che è ancora oggi.
È proprio questo il quadro storico-culturale narrato dal Babylon di Damien Chazelle, che, dopo La La Land (2016) ha sentito il bisogno di gettare uno sguardo ulteriore, questa volta sulla Hollywood vera e propria. Non è stato il solo, d'altronde: solo per fare qualche esempio, dai fratelli Coen di Barton Fink-È successo a Hollywood (1991) ed Ave Cesare! (2016) al David Lynch di Mulholland Drive (2021), dal Robert Altman de I protagonisti (1992) al Quentin Tarantino di C'era una volta a Hollywood... (2019), dall'Alejandro Gonzales Iñarritu di Birdman (2015) al David Fincher di Mank (2020), molti noti autori sono stati spinti a voler raccontare il mondo complesso in cui sono immersi. Lo stesso The Fabelmans di Steven Spielberg, a pensarci, è un'unica narrazione proiettata inevitabilmente verso la meta posta nella zona sud-est di Los Angeles.
Baylon, però, allo stesso tempo si discosta da tutti i suoi fratelli contemporanei. Chazelle, infatti, per tre ore e dieci mescola senza soluzione di continuità tematiche storiche e crudezza iperreale, drammi personali e fotografia volutamente esagerata, istanze sociali e musica continua. Lo spettatore che esce dalla sala dopo la visione del film vive per certi versi una condizione di disorientamento simile a quella che deve provare chi si trova a dover smaltire l'assunzione di sostanze psichedeliche.
È bene però puntualizzare che Baylon non è unicamente un trip visivo e sonoro. Anzi, all'interno di tale stroboscopia chi guarda ritrova una storia autentica, e molto personale, di due giovani del finire degli anni Venti: da una parte un'attrice che aspira ad entrare nel gotha della scena cinematografica, dall'altra un factotum il cui sogno è lavorare su un set. Le rispettive carriere si dipanano a partire dal loro incontro iniziale, che avviene ad una delle eccessive e strabordanti feste il cui tramandate fino ai giorni nostri nei racconti sulla Hollywood dell'epoca, quella che il regista e sceneggiatore Kenneth Anger nel suo saggio del 1959 ha ribattezzato, appunto, “Hollywood Babilonia”.
In questo contesto, le due storie “micro” dei protagonisti si connettono a quella “macro” della suddetta Hollywood, mostrando come quest'ultima sia un cosmo con regole proprie, decisamente fluttuanti, a cui ogni aspirante addetto ai lavori deve stare attento, se non vuole perdere il treno giusto. Il successo e l'insuccesso, le cadute e le risalite, i trucchi in pubblico e la spontaneità nel privato sono tutti elementi che Chazelle si guarda bene dal dosare, costruendo anzi un film sfrenato tanto quanto il soggetto trattato, e che, a giudicare dal primo impatto sulla critica, altrettanto spacca le opinioni: o lo si ama o lo si odia.