di Maria C. Fogliaro
Ogni giorno Troy Maxson (Denzel Washington, perfettamente calato nel ruolo) carica e scarica spazzatura nei sobborghi di Pittsburgh, aspettando il venerdì, giornata di paga.
Ogni giorno Troy, aiutato dal gin, si lascia andare a interminabili monologhi sulla propria condizione di «nero», sfruttato e senza possibilità alcuna di riscatto sociale. Sogna di poter guidare il camion della nettezza urbana - cosa non semplice per un uomo di colore nell’America degli anni Cinquanta -, proprio come un tempo aveva sognato di diventare un campione del baseball, prima che le sue aspirazioni - questo racconta lui - venissero stroncate dal razzismo di un mondo per soli «bianchi».
Tristezza e rabbia popolano la vita di questo operaio afroamericano della Pennsylvania, anche quando egli pensa di star provvedendo responsabilmente alle necessità della propria famiglia. Lo sa bene il suo amico e collega Jim Bono (Stephen McKinley Henderson); lo sperimenta ogni giorno Rose (una bravissima Viola Davis), sua moglie, che da diciotto anni gli vive amorevolmente accanto. È un uomo che ha perso ogni speranza, Troy: beve, canta, ma soprattutto parla. Instaura dialoghi immaginari con la morte, e non perde mai l’occasione di colpire, con parole ironiche e sprezzanti, chi ancora qualche sogno lo coltiva. Come Lyons (Russell Hornsby), il figlio trentacinquenne che Troy ebbe da giovane prima di finire per anni in galera, che spera di diventare un musicista di successo, e intanto si arrabatta come può per guadagnare (non sempre in maniera legale) qualche soldo. E come Cory (Jovan Adepo), il giovane e gentile figlio di Troy e di Rose, un bravo studente che vive con i genitori, e che sarebbe avviato a una promettente carriera di giocatore di football, se il padre non gli mettesse costantemente i bastoni fra le ruote.
Al netto della non perfetta riuscita nel compito, affatto semplice, di adattare l’omonima pièce teatrale di Auguste Wilson - vincitrice del premio Pulitzer per la drammaturgia nel 1987 -, Barriere (Fences, USA, 2016, 138’), diretto da Denzel Washington, contiene spunti di riflessione che, dal clima storico della emarginazione razziale negli Stati Uniti del secondo dopoguerra nel quale il film nasce, si estendono alla più generale condizione dell’uomo, in catene - che ne sia cosciente o meno - per sua precisa scelta.
Imprigionato in un universo cupo e immutabile (che la fotografia di Charlotte B. Christensen cattura con mestiere) - frutto delle condizioni storico-sociali nelle quali si trova oggettivamente a vivere, ma anche delle barriere (emotive e mentali) che egli si costruisce intorno -; incapace, quindi, di superare la miseria umana e materiale derivante dalla profonda ingiustizia di una società classista e intrisa di pregiudizi razziali, Troy permette alla sua infelicità di rovesciarsi in supremo egoismo nei confronti delle persone che lo amano. Lo vediamo nel disappunto per Cory, quel figlio che si ostina a non stare nei limiti che egli vorrebbe porgli, e il cui eventuale successo - come gli rimprovera il ragazzo - gli ricorderebbe il suo fallimento. E, soprattutto, nel rapporto con Rose, la donna che egli ha fagocitato con la sua personalità dominante, e che del suo dolore si è fatta genuinamente carico - anche a costo di dimenticare se stessa -.
Ma alla fine mentre Troy soccomberà, vinto dalla vita e prigioniero dei propri demoni, sarà Rose – vittima due volte, delle discriminazioni sociali e dei soprusi emotivi del marito – a trovare in sé, nella fede religiosa e nell’amore per la propria famiglia, la forza per uscire da un’esistenza senza sole, oltre ogni dolore e ogni disperazione. Pronta a coltivare la nuova speranza che i ritratti appesi in casa di John Fitzgerald Kennedy e di Martin Luther King lasciano presagire.