di Luigi Ercolani
Emilia Mazzacurati al momento è una figlia d'arte. In senso sia letterale che metaforico, nel senso che si laureata in Storia dell'Arte all'Università Ca' Foscari di Venezia, ma ha poi intrapreso la strada della regia come papà Carlo, prematuramente scomparso nel 2014.
Il percorso accademico di Emilia è ampiamente riscontrabile in Billy, il suo lungometraggio d'esordio, in cui ciò che immediatamente colpisce è proprio la capacità di riempire l'occhio dello spettatore. Tramonti, luci al neon e di Natale, abiti dai colori sgargianti, giochi da tavolo, fuochi, strumenti musicali, scene al buio: nella produzione della giovane regista tutto concorre a soddisfare il latente appetito visivo di chi guarda.
Quello che si sviluppa sullo schermo è un racconto che prende corpo nella provincia settentrionale italiana ma è debitore di un certo cinema americano on the road. Forse un po' troppo, visto che alcune situazioni appaiono abbastanza surreali e cercate, ma questo è davvero l'unico appunto che si può fare ad un'opera prima che, per il resto, bilancia in maniera equilibrata il lato artistico e quello narrativo.
Più che il personaggio di Billy, che resta comunque il punto di ancoraggio per lo spettatore,la protagonista di questa pellicola è piuttosto la provincia nel suo complesso. La provincia con le sue peculiarità locali, la sua pace che viaggia sul crinale della solitudine, i suoi rapporti più stretti rispetto ad una città-alveare in cui, spesso, l'unica socialità si ha all'interno del proprio ambiente lavorativo, per poi richiudersi in casa una volta espletata il proprio dovere giornaliero.
Pur rifacendosi, come detto, ad un certo cinema statunitense, nella sua analisi Emilia Mazzacurati prende tuttavia distanza dalla visione un po' manichea che il cinema a stelle e strisce offre della provincia. Nella maggior parte dei casi quest'ultima è infatti descritta dalle produzioni hollywoodiane come un concentrato di perversione, di tensioni celate, di trame sotterranee e losche: un luogo insomma da cui fuggire, e a cui preferire la sicurezza e la stabilità dell'agglomerato urbano.
Tale declinazione disgregante è invece assente nel lavoro della regista, la quale, al contrario, preferisce dipingere la provincia come uno spazio che ha sì le sue stranezze e le sue fragilità, ma in cui tanto le prime quanto le seconde possono trovare legittimità grazie alla comprensione della comunità. È proprio questo senso di prossimità la vera carta vincente di Billy, che mostra come un contesto non perfetto riesca ad essere comunque accogliente, e come diverse imperfezioni possano in qualche modo incastrarsi per formare un quadro eterogeneo ma unitario.
La comunità diventa quindi una famiglia allargata, dove il rapporto tra benefici e danni è dichiaratamente a vantaggio dei primi, pur non negando l'evidenza dei secondi, che fisiologicamente incidono tanto sui singoli quanto sulla piccola collettività. La quale però, grazie alla conoscenza reciproca, riesce a metabolizzare un elemento eterodosso come l'ex-rocker Zippo, uscendone addirittura rafforzata. A dimostrazione di come è vero che le dinamiche che intercorrono tra soggetti rendono un insieme molto più della semplice somma delle parti.