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Blonde


di Luigi Ercolani


La gente vede solo i suoi pensieri più reconditi e li sublima attraverso di me, presumendo che io ne sia l'incarnazione”. Così si esprimeva Marilyn Monroe, e tali parole potrebbero essere prese a prestito per tracciare un ideale filo conduttore del film Blonde, che ripercorre la vita dell'icona hollywoodiana di seduzione per eccellenza.

Il primo aspetto che colpisce del film di Andrew Dominik, presentato alla Biennale di Venezia del 2022 e già oggetto di nette spaccature tanto nella critica quanto nel pubblico, è che anch'esso porta in scena una spaccatura. Per la precisione quella tra la Norma Jean Baker del privato e la Marilyn Monroe del pubblico, ossia tra come la protagonista appare nell'immaginario collettivo e il modo in cui invece si sente lei, come persona, che addirittura fatica a riconoscersi sullo schermo quando guarda, come spettatrice, i lungometraggi a cui ha preso parte come attrice.

Ad aggravare maggiormente questa lacerazione interna c'è, inoltre, lo scetticismo delle persone comuni quando Norma Jean confessa che essere Marilyn è problematico, e che si sente intrappolata nell'icona che è diventata: nell'immaginario collettivo medio dell'epoca, e per certi versi pure in quello contemporaneo, la vita dei divi è infatti tutta rose e fiori, e non c'è alcuno spazio per emozioni o fragilità da vita quotidiana.

Per certi versi qui si sviluppa una prima critica tanto allo star system, che costruisce iconografie spesso forzando la volontà dell'interessato stesso, quanto del pubblico, il cui bisogno spasmodico di miti è alimentato tramite un mix di spettacolarizzazione e notiziabilità che fa perdere di vista il fatto che, pur appartenendo al jet set, anche gli attori e le attrici di Hollywood sono pur sempre esseri umani.

Lo sradicamento della natura umana avviene in maniera ancora più marcata, se possibile, quando si tratta dell'ambito della sessualità. Blonde dipinge, in questo senso, il quadro di un ambiente che vive di prevaricazione, in cui il potere è detenuto dagli uomini, che fanno della nudità e della sessualità di piacere ad uso e consumo di chi muove i fili, togliendo tanto alla prima quanto alla seconda qualsiasi valore intrinseco che non sia l'utilitarismo. Insomma, c'è del marcio a Los Angeles, ed Andrew Dominik ci tiene ad essere estremamente esplicito su questo, utilizzando la Hollywood di allora per parlare, forse, anche di quella di oggi.

In un contesto tanto bieco, in cui conta solo la carriera e il battere il ferro finché è caldo, Marilyn attraversa il mondo come se non ne facesse parte, come se rispetto a quest'ultimo andasse ad un ritmo più lento e meno frenetico. C'è una sorta di ideale bolla tra la protagonista e la realtà che la circonda, una bolla che si rompe solo quando è il mondo a decidere di calcare la mano su di lei.

La sensazione di surrealtà che circonda Marilyn diventa una cifra stilistica propria del film. Le scelte registiche di Dominik, infatti, compongono un quadro altrettanto lisergico, in una rappresentazione dai toni onirici in cui si passa da una situazione all'altra senza soluzione di continuità. Anche se più che di sogno, forse, per Norma Jean e il suo tragico alter ego sarebbe più appropriato parlare di incubo.




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