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Bullet train


Bullet train

di Luigi Ercolani


Ci sono un agente segreto che si sente particolarmente sfortunato, due gemelli non troppo gemelli, un padre giapponese ferito nell'orgoglio e qualche killer dalle abitudini molto peculiari. Potrebbe essere una barzelletta, e in effetti durante lo svolgimento dell'azione si ride abbastanza, ma invece è il nuovo film di David Leitch, Bullet train.


Soprattutto uno spettro, tuttavia, si aggira per questo treno ad alta velocità che collega Tokyo a Kyoto: è lo spettro della Morte Bianca, un pericoloso ed efferato signore del crimine giapponese che in un modo o in un altro ha toccato quasi tutte le vite delle persone presenti sul treno. I suoi metodi efferati e il suo passato misterioso lo rendono un antagonista temibile ed incisivo anche senza necessità di apparire: è la sua capacità di estendere la sua longa manus e muovere i fili, infatti, a compensare la sua mancata presenza scenica, che arriva solo nel momento clou.


L'unico personaggio che non ha alcun legame con il villain è proprio l'agente segreto perseguitato dalla malasorte. Ladybug, questo il nome in codice che gli è stato assegnato, sul treno del destino è l'unico a trovarcisi per caso, in quanto sostituisce un collega malato. Lo stesso nickname a lui sembra una presa in giro, in quanto significa “coccinella”, ovvero l'insetto che più di tutti viene,

trasversalmente nel mondo, associato alla fortuna.


È proprio lui l'aggancio che porta lo spettatore dentro la storia, che essendo caratterizzata da un cast corale aveva necessità di un punto di riferimento per chi guarda. I trascorsi incrociati tra i vari personaggi sarebbero risultati vieppiù incomprensibili, e anche disorientanti, senza la presenza di un astante che, come il fruitore, fosse assolutamente al di fuori da qualsiasi background in gioco.


Una delle parti più riuscite del film, per giunta, è proprio la sapiente capacità di alternare le storyline dei personaggi in maniera dosata e acuta, facendo emergere un quadro coinvolgente, un mosaico in cui, ad ogni tessera posata, corrisponde la volontà di saperne di più.


Su tutti, però, emerge un unico grande protagonista: il Destino. Il Destino cinico e baro, come avrebbe detto Saragat, è una Mano Invisibile che dirige il gioco, anche di quello stesso antagonista che pur sembra controllare ogni cosa, ma risulta al contempo una presenza palpabile che condiziona le vite (e in alcuni casi le morti, of course) di ciascuno dei presenti.


Ne emerge quindi anche una riflessione sulla vanità della sempre forte tentazione umana di tenere le briglie di un'esistenza che in realtà finisce costantemente per subire l'effetto degli eventi provvidenziali, siano essi positivi o negativi, che si presentano. E suona quasi, quindi, come un invito implicito allo spettatore, da parte del film, ad adattarsi a quanto la vita ha in serbo per noi, pur nelle difficoltà che essa a volte comporta.

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