di Luigi Ercolani
È stato la prima star internazionale a tutto tondo, che potesse essere riconoscibile sia sul grande schermo che dietro la macchina da presa. Se nella cinematografia anglosassone David W. Griffith e Cecil B. DeMille sono considerati i primi registi-autori e Rodolfo Valentino il primo grande divo, Charlie Chaplin ha aperto la strada, imponendosi come figura in grado di ricoprire in maniera sublime entrambi i ruoli: Erich von Stroheim, l'unico paragonabile, annaspò ben presto nella propria volontà di potenza, vedendo la propria figura a poco a poco offuscata.
È stato amato molto, dal suo pubblico, e detestato altrettanto dalle élite, in particolar modo quelle conservatrici e puritane. Il motivo è semplice: attraverso i suoi film Chaplin ha sempre denunciato in maniera inequivocabile quella che Papa Francesco oggi chiamerebbe cultura dello scarto, ovvero il conscio abbandono degli ultimi da parte delle classi dominanti.
Chaplin non faceva mistero, attraverso la propria arte, di parteggiare chiaramente per poveri, quelli che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena e non sanno in quali condizioni arriveranno a fine giornata, se ci arriveranno. D'altronde, fra quelli c'era stato anche lui: un contesto famigliare lacerato ed economicamente instabile portarono infatti lui e suo fratello crescere tra collegi ed istituti per orfani.
Proprio per questa precarietà vissuta sulla propria pelle, le sue costruite nei suoi prima che intelligenti o amare, erano anzitutto verosimili. Quando vediamo Vita da cani (1918) o Il Monello (1921), giusto per fare due esempi, vediamo un destino che si accanisce in maniera continua contro il suo alter ego Charlot, che però non perde mai la sua carica umana, ma sceglie di operare il bene anche quando il mondo gli volta le spalle. È stato osteggiato, perseguitato. L'accusa era quella di essere comunista, anche non esplicitò mai quali fossero le sue preferenze politiche: negli Stati Uniti del truce senatore McCarthy, quelli della caccia alle streghe contro chi si riteneva potesse essere un collaboratore dei nemici giurati sovietici, bastò anche solo un sospetto per finire in una lista di proscrizione che gli impedì, nel 1952, di rientrare in America.
Si trattava, banalmente, solo di una scusa. La realtà che con i suoi film diceva (pur essendo muto) a chiare lettere che è possibile mantenere la propria umanità e sorridere anche di fronte ai rovesci della vita. Un messaggio già di per sé cruciale, che diventa tuttavia ancora più significativo se viene da opere che rappresentano non la classe media, quella cosiddetta “operaia”, ma, come detto sopra, gli emarginati, coloro che (in senso buono) sono costretti a vivere di espedienti, ma che trovano comunque il modo di mettere a disposizione degli altri quel poco che hanno.
Torna in mente quel brano evangelico, in cui Gesù elogia la povera vedova che ha donato tutto ciò che ha al tempio. Forse casualità, visto che, come raccontato in un'intervista dalla figlia, Chaplin era ateo, anche se rimpiangeva di non riuscire a credere. O forse, come qualche studioso teorizza, il segno di una religiosità ben più profonda. Buon 135° compleanno, Charlie Chaplin.