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Civil War

di Luigi Ercolani

Di lungometraggi che nel titolo richiamano la Guerra Civile statunitense (quella che nei nostri libri di storia è chiamata Guerra di Secessione), nell'ultimo decennio, ne sono usciti due. Il primo, del 2016, è la trasposizione reinterpretata dell'arco narrativo fumettistico Civil War, edito dalla Marvel tra il 2006 ed il 2007, che poneva a confronto due fazioni di supereroi (con cambi di casacca reciproci) su una questione di libertà personali.

Attraverso tale storia, lo scozzese Mark Millar aveva puntato l'indice contro gli Stati Uniti di George W. Bush, e sulla stretta che l'amministrazione di quest'ultimo aveva operato sulla privacy dei cittadini tramite il PATRIOT Act, conseguenza degli attacchi dell'11 Settembre. Ed film di Alex Garland Civil War, del 2024, è molto più vicino al tipo critica politica, cinismo dei contenuti e crudezza delle immagini della versione fumettistica piuttosto che al blockbuster dei Marvel Studios, edulcorato dall'intervento vigile della proprietaria Disney.

Presentando una nuova guerra intestina tra un governo federale e due Stati, Texas e California, dichiaratisi indipendenti rispetto a Washington, questa pellicola aderisce al genere distopico, ed in apparenza potrebbe sembrare una metafora delle fratture sociali che recentemente hanno spaccato gli Stati Uniti. Sarebbe tuttavia una chiave di lettura superficiale.

Ciò che Civil War mette in luce, infatti, è soprattutto la svolta voyeuristica che il giornalismo, come istituzione, ha imboccato da qualche decennio a questa parte. Da racconto il più possibile intellettualmente onesto (imparziale no, è impensabile) e focalizzato sull'offrire al lettore un resoconto sufficientemente esaustivo di un dato evento, il giornalismo si è infatti progressivamente fatto estasi del dolore, ebbrezza della sofferenza, epifania del male che l'essere umano è in grado di infliggere, toccando non di rado livelli che non è possibile definire con un altro termine se non prossimi ad una sorta di pornografia.

È questo tipo un giornalismo che rimesta nel torbido, e che cerca di colpire le viscere del lettore per stimolare in lui una reazione altrettanto viscerale. Ciò che sembra un conseguenza necessaria della società dello spettacolo penetra in profondità nella forma mentis di molti giornalisti, che per convinzione personale o per cinismo professionale adottano in toto questo tipo di approccio, preoccupandosi il giusto della propria incolumità e nulla sull'effettiva opportunità di rendere pubblici un certo tipo di contenuti, specie se provenienti da contesti contraddistinti da una variabile dose di violenza.

In ogni caso, sia che ci creda davvero, sia che agisca biecamente solo per la carriera, il giornalista si farà scudo da eventuali critiche attraverso il ricorso all'arma retorica della deontologia professionale, ovvero uno strumento di stampo generico atto proprio a parare i colpi contro qualsiasi tentativo di eccepire all'approccio adottato. Ma, sembra dirci Alex Garland, la professionalità è una cosa, la rettitudine personale invece un'altra.

Ed è proprio per questo i suoi protagonisti, a mano a mano che il racconto avanza, risultano più vicini a degli antieroi. Pur muovendosi in ambiti off limits e dovendo fare scelte spesso drammatiche, infatti, il regista non si stanca mai, sequenza dopo sequenza, di sottolineare che essi sono semplicemente esempi negativi messi a confronto con altri ancora più negativi, ma che bisogna guardarsi dal considerarli portatori di virtù da prendere a modello.

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