di Maria C. Fogliaro
«La paura non ha mai determinato il nostro futuro». È in questa frase - pronunciata da Nina Fawcett (una bravissima Sienna Miller), ed espressione di un mondo forse perduto per sempre - il senso vero di Civiltà perduta (The Lost City of Z, USA, 2016, 140’).
Siamo nel 1905. Percy Fawcett (un intenso Charlie Hunnam), colonnello dell’esercito britannico di stanza a Cork, in Irlanda, serve lealmente l’Impero, senza però nutrire più alcuna speranza di far carriera, a causa del discredito gettato sulla sua famiglia dalla cattiva reputazione del padre - famoso giocatore di cricket con problemi di alcolismo -. Ma nel 1906 la Royal Geographical Society lo chiama a Londra. Per la prestigiosa istituzione il colonnello, che ha alle spalle studi di topografia e di cartografia e che ha servito in molti territori dell’Impero, è l’uomo giusto per guidare una spedizione volta a mappare i confini fra Bolivia e Brasile, fortemente contesi per via della produzione dell’«oro nero» dell’epoca - il caucciù -.
È l’occasione che Percy stava aspettando per ripristinare il proprio onore e reintegrare il buon nome della famiglia, anche se la decisione lo porterà lontano dal figlio Jack e dall’amatissima moglie Nina - una donna forte e indipendente, in attesa di un altro bambino -.
Nella profondità della giungla, risalendo il fiume fino alle sue ignote sorgenti insieme ai due indispensabili compagni, Henry Costin (Robert Pattinson) e Arthur Manley (Edward Ashley), Fawcett scopre che l’Amazzonia è «molto di più di un deserto verde»: essa ospita un’antica civiltà perduta. Dietro il ritrovamento di numerosi cocci di terracotta nel mezzo della foresta, il colonnello vede, infatti, la possibilità di scrivere un nuovo capitolo della storia dell’umanità. Per Percy (e indirettamente per Nina e i suoi figli) è l’inizio di una ricerca che non lo lascerà più per tutta la vita.
Basato sulla storia vera del tenente colonnello Percival Harrison Fawcett (nato nel 1867, e scomparso, insieme al suo primogenito, nel 1925, nel corso della sua ultima spedizione in Sud America), e ispirato al romanzo del giornalista newyorkese David Grann, The Lost City of Z: A Tale of Deadly Obsession in the Amazon (Doubleday 2009; pubblicato in Italia nel 2010 da Corbaccio), il film diretto e sceneggiato da James Gray immerge lo spettatore nel caldo umido dell’America del Sud, in un territorio inesplorato, popolato da genti spesso poco amichevoli, che non hanno mai avuto contatti con l’uomo bianco. La cui cultura - secondo Fawcett - è da conoscere e da rispettare, anche quando le sue espressioni più cruente potevano cozzare con la sensibilità europea. Poiché la conoscenza – ha ben chiaro il colonnello – libera l’uomo dalla paura incalcolabile che abbiamo gli uni degli altri.
Grazie alla splendida fotografia di Darius Khondji e alla colonna sonora di Christopher Spelman, si penetra nel cuore di una foresta lussureggiante e brulicante di vita, dove signora è la natura e l’uomo può sperare di sopravvivere solo se ben addestrato e fortunato - come fu, inizialmente, il colonnello inglese -, o se, come i nativi, si possiedono conoscenza e profondo rispetto per la Terra e tutti i suoi abitanti.
A prevalere, nella storia che Gray ha portato in scena con grande passione, è la dimensione epica ed eroica dell’esistenza, che rimanda al tempo dei viaggiatori e dei grandi esploratori, come Kipling o il capitano Shackleton, entrambi citati nel film. Un’esistenza figlia di un mondo che - come il regista mostra efficacemente quando Fawcett nel 1916 combatte nella Somme, comandando un gruppo di artiglieria che si distingue per coraggio e senso del dovere - fu spazzato via dalla Prima guerra mondiale. Un conflitto che segnò l'affermazione dell'età della ricerca della sicurezza e la fine del tempo in cui l’uomo, osando affrontare maelstrom irresistibili, si era avventurato per strade ignote, fuori dai percorsi tradizionali, che gli avevano consentito di aprire porte di universi sconosciuti. A quel mondo e a quel tempo non ancora sottomessi alle potenti certezze della tecnica Civiltà perduta rende omaggio, con nostalgia ma anche con la consapevolezza che nell’uomo esiste (e resiste) uno spazio che sempre, nonostante la paura, cercherà la via che conduce alla libertà vera.