di Lorenzo Meloni
Che colpo di genio Wonder Woman. L'astuzia con cui D.C. Comics si è mossa "al traino" del rivale Marvel Cinematic Universe, in linea con un progetto editoriale che puntava fin da principio a clonarne la vincente formula seriale, stavolta andava oltre lo schema generale e dritto al dna, replicando del metodo-Marvel anche il tono leggero, il cosmopolitismo, l'attenzione al sociopolitico. Non ha guastato avere in scuderia "La" supereroina, nonchè icona femminista per eccellenza, appunto Diana Prince/Wonder Woman. Marvel si è presto ripresa col primo film standalone dedicato a un supereroe nero, Black Panther (nonchè coi tre oscar vinti e con incassi davvero mostruosi). Ma sul fronte parità dei sessi il primato era perso.
Apparentemente un handicap, la scomparsa del fattore novità e del conseguente bisogno di enfasi massiccia sul tema potrebbe invece aver giocato a favore di Captain Marvel, film al femminile e femminista, ma prima di tutto appartenente al MCU, e come gli ormai numerosi predecessori improntato a un'etica collettivista che smussa gli angoli delle singole individualità raccontate facendole convergere nel gruppo, perfettamente al passo con uno sforzo produttivo che si costruisce gradualmente fino a detonare in operazioni-monstrum comeAvengers: Infinity War e l'imminente Avengers: Endgame.
Per questo, mentre gran parte della campagna marketing si è comunque concentrata sul genere del personaggio protagonista, con utili incidenti di percorso come il discusso appello di Brie Larson per avere più giornalisti "di colore, donne, portatori di handicap" in conferenza stampa o lo scambio di tweet con il politicamente scorretto "maschio bianco" James Woods, parte della critica e del pubblico fa notare come rispetto a Wonder Woman questo film sia molto meno preoccupato di ostentare progressismo.
La verità sta nel mezzo. In realtà, il tasso di dettagli e strizzate d'occhio liberal è altissimo anche qui. Per la maggior parte legati al disorientamento che porta collocare un'eroina ipermoderna negli anni '90, col loro immaginario filmico ancora recente ma lontano anni luce. La protagonista Vers (Brie Larson) piove sul pianeta Terra dritta dritta...da Blockbuster, dove fa cose come bruciare via la faccia di Schwarzenegger dal poster di True Lies lasciando invece intatta Jaime Lee Curtis. Più avanti invece, stavolta come Schwarzenegger, ruba la moto a un tizio che fa un po' troppo il carino, in perfetto stile Terminator, saga che ha in Linda Hamilton una delle più riconoscibili eroine d'azione di tutti i tempi.
Solo che, anche qui di pari passo col revivalismo anni '90, si tratta appunto di dettagli, di briciole seminate a un livello a volte quasi subliminale (a volte no: "maschio, umano, minaccia...praticamente inesistente"). Si è perfino detto che l'eroismo di Vers e il suo percorso all'interno del film non hanno nulla a che fare col suo essere donna. E detto così è troppo, basta la carrellata di ricordi infantili in cui si sente sminuita dal padre nei suoi sforzi per riuscire in attività ritenute appannaggio maschile. L'impressione che la sua femminilità non animi il discorso che è la sua storia è perfettamente comprensibile, ma per ben altro motivo: perchè Vers è eroica in modo monolitico, indiscutibile e soprattutto immobile. Perchè, in parole povere, un "discorso" su questo personaggio non esiste.
Se ogni eroe Marvel da Iron Man (2008) in poi ha dovuto scontrarsi con la propria individualità per rientrare nella dimensione collettiva, ecco con Captain Marvel un'estremizzazione che sfiora il paradosso: l'eroina è solo il fulcro intorno a cui ruotano gli eventi, tutto succede intorno a lei: non a causa sua, non in relazione con lei, non nella sua interiorità. Brie Larson, attrice con buone interpretazioni all'attivo (Room), incarna esattamente questo concetto. La sua è in assoluto la peggior prova mai data da un protagonista del MCU, legnosa e quasi sempre scollegata dal contesto. Passato il momento in cui ci si chiede se è possibile che questi furbastri siano caduti sull'ovvio, e scagionata la direzione d'attori (tutti gli altri, da Jude Law a Samuel L. Jackson a Annette Benning a Lashana Lynch, funzionano a meraviglia), escluso l'impossibile, ciò che resta - per quanto assurdo - dev'essere la verità. Non c'è nessun errore.
Lo sappiamo, Captain Marvel è il deus ex-machina necessario per rimettere in moto gli eventi dopo l'ecatombe di Infinity War. La sua introduzione è puramente strumentale, e trova il suo senso non nell'economia del singolo film ma in quella del ruolo che assumerà fra meno di un mese in Endgame. Non è quindi necessario caricarla di una psicologia che rischierebbe - sviluppandosi - di rendere il qualche modo discutibile il film sul fronte politico. Perchè rischiare? Meglio giocare di toccate e fughe, lasciando il lavoro sporco al grande spettacolo e alla folla dei comprimari. E il gioco, infallibilmente, riesce. Tipico film di raccordo, fatto "con la mano sinistra" in termini sia contenutistici che tecnici, Captain Marvel è la miglior dimostrazione possibile dell'efficienza ormai raggiunta dalla macchina narrativa MCU perfino a dispetto di una protagonista scialba e a tratti irritante. Fra azione a rotta di collo, irresistibile ironia samuelLjacksoniana e gatti alieni dai terrificanti poteri nascosti, due ore passano in fretta, mentre aspettiamo una chiusa mastodontica che in fondo basta da sola a giustificare l'inconsistenza di Captain Marvel. La classe non è acqua.