di Lorenzo Meloni
Ted Bundy è di gran lunga il più famoso serial killer americano. Nascendo soprattutto sull'onda lunga del suo caso la serie di studi che portarono a coniare il termine, si potrebbe quasi dire che un serial killer è tale "perché somiglia a Ted Bundy". Il suo "lascito" ammonta a due vittime accertate, più altre trenta in 7 stati (forse non sono tutte) confessate poco prima della sua esecuzione sulla sedia elettrica il 24 gennaio 1989; e soprattutto, a un personaggio mediatico di cui l'America e per logica di egemonia culturale il mondo, non hanno più saputo liberarsi. In una scena di Ted Bundy - fascino criminale, una donna - la seconda ad amare l'assassino e sostenere fino all'ultimo la sua innocenza - siede completamente sola nell'aula di tribunale deserta mentre le luci si spengono una ad una. Le mani sulla pancia, ha appena scoperto di essere incinta. I semi del male, metaforicamente, sono piantati.
Il titolo originale recita "estremamente malvagio, mostruosamente cattivo e vile", le parole pronunciate dal giudice che condannò Bundy in bilancio delle sue gesta criminose e della sua personalità, per quanto si poté appurarne in quell'aula. Un po' intraducibile nella sua ironia, gli adattatori italiani ci hanno come al solito messo del loro, con un bieco "fascino criminale" che però, come spesso succede, a modo suo rende altrettanto bene il senso del film. È la seconda disamina del personaggio da parte del documentarista Joe Berlinger nel giro di pochi mesi; prima era uscito il documentario Netflix in quattro episodi The Ted Bundy Tapes, resoconto malgrado le polemiche adeguatamente sobrio e poco sensazionalistico delle proporzioni di gigantesco circo mediatico assunte dal processo a Bundy, primo processo televisivo a incollare davanti allo schermo un'America fremente di scoprire se era vero che quel giovanotto fascinoso e ben vestito che parlava tanto bene fosse la belva che per alcuni anni aveva seminato il panico nel paese. Più che i suoi omicidi o perfino la sua stessa personalità, al regista interessava andare alle radici di un grande (anti)mito americano della seconda metà del 900.
Da distaccato e documentaristico lo sguardo di Berlinger si fa ora epidermico, ma proprio per questo, nel caso specifico, ancor più sociologicamente accurato. Del vero Bundy, chiunque sia stato, di nuovo ci interessa poco. Scegliamo invece una prospettiva interna alla vicenda e che esemplifica particolarmente bene il rapporto fra questa persona e la sua immagine mediatica, vero bersaglio del regista. Il Bundy del film - molto meglio in questo caso chiamarlo "Ted" - è quello conosciuto da Elizabeth Kendall, sua fidanzata per alcuni anni e autrice di Il principe fantasma. La mia vita con Ted Bundy. Se si ambisse a un ritratto psicologico veritiero con le sfumature e zone grigie del caso, l'operazione sarebbe da considerarsi fallita. Ma qui si mira a un aspetto preciso e dirimente della relazione fra i due, la propensione della ragazza a eroicizzare un uomo bello, solare, apparentemente gentile, e quindi a negare la sua colpevolezza anche in faccia all'evidenza.
Questa imperdonabile leggerezza è quella dell'America, sondata dalle due opere di Berlinger in un'alleanza/gemellaggio che rende impossibile parlare di una senza citare l'altra. Un'America inizialmente difficile a convincersi della vera natura di un colpevole improbabile (di questo si occupava fuor di metafora già The Ted Bundy Tapes), poi capace con altrettanta leggerezza e ferocia - molto simili a quelle del killer - di chiedere il suo sangue con modalità da linciaggio medievale (anche qui il documentario picchia duro); infine a tanti anni dai fatti, quando gli omicidi sono lontani e il mostro non fa più paura, disposta ad accoglierlo a braccia aperte come icona pop, adorabile mattacchione belloccio, dagli occhi azzurro-elettrico, spiritoso e sempre un passo avanti a tutti.
È questo "terzo Bundy", disincarnato e ormai compiutamente mitizzato, il protagonista di Fascino criminale. Sorriso contagioso, vestiti buffi e divertenti, con grande ironia Berlinger gioca sul suo famoso fascino in chiave quasi cartoonesca, tutte le donne di ogni stanza in cui entra si voltano invariabilmente a guardarlo cadendo ai suoi piedi. La sua allegria ci contagia, le sue fughe miracolose (sottolineate da un fantastico repertorio musicale rock) ci esaltano anziché spaventarci, la sua storia d'amore con Elizabeth ha tutta la melassa over-the-top delle migliori/peggiori telenovelas. Geniale poi l'idea di affidare a Zac Efron, teen idol disneyano di qualche anno fa con i due High School Musical, la parte di un assassino che a un certo punto dirà "sono più popolare di Disneyworld", parco che sorge nella stessa allegra Florida in cui fu processato e giustiziato al termine del celebre processo-show.
Intelligente, rassicurante, con tutti i crismi del bravo ragazzo. "Lei poteva essere da questa parte del processo. Poteva essere un buon avvocato" gli dirà il giudice nel leggergli la sua condanna a morte. Se Jack lo Squartatore resta Mito per il mistero che lo circonda, Bundy è Mito per sovraccarico di tratti esteriori positivi, e per il cortocircuito fra questi e le sue azioni. Oggi, leggendo di lui o guardandolo sorridere su uno schermo dal caldo e dalla sicurezza delle nostre case, è facile acclimatarsi, far valere anche oltre la prova dei fatti le qualità ordinarie, "domestiche" della sua immagine, la simpatia istintiva che lo salvò spesso per il rotto della cuffia e gli permise di guadagnarsi la fiducia di decine di donne sfortunate. Per questo è perfetto il Bundy "casalingo" di Berlinger che cucina col grembiule: non perchè sia realistico, ma perché racconta di una distorsione collettiva ex-post della realtà. Con ironia, con un pizzico di innegabile simpatia per quella che è a ormai a tutti gli effetti una figura del folklore contemporaneo e in quanto tale tende a sottrarsi alla problematica morale; ma anche, a tratti, con l'agghiacciante capacità visiva di evocare Bundy per quello che realmente fu, come quando i lineamenti di Zac Efron, singolarmente resi identici dall'ottimo make-up a quelli del killer ma inseriti in un volto comunque più regolare e gentile, inquadrati in uno specchio deformante si riconfigurano in un volto di perfetta, sinistra e inequivocabile esattezza, dando per un attimo un sussulto alla bocca dello stomaco mentre tocchiamo con mano la differenza fra una favola e un'orrenda storia vera.