Gli spettatori inglesi lo vedranno dal 2 novembre, quelli americani dal 9. Ignorato alle premiazioni di Venezia 75, sontuosa produzione Amazon fra le 7 in concorso appartenenti a questo o all'altro colosso dello streaming Netflix dopo la serrata di Cannes, rischia di non vedere mai le sale italiane e da noi finirà forse per essere distribuito direttamente online. Pagherà il prezzo del proprio coraggio nel proporre un'idea di film storico diversa e non facile, quasi uno sberleffo nella sua apparenza seriosa e calligrafica alla grandeur e alla "sistematica" di altri esponenti del genere, disposti a piegare a una sola lettura 10 o 100 anni di vite e persone, di guerra e diplomazia, di fame e benessere. Non per errore, proprio questo fa un racconto se c'è dietro una visione, ma Peterloo - per la sfortuna dei suoi produttori - non è esattamente quel che si dice un racconto.
Espone con dovizia di particolari (documentati) i fatti che al termine delle guerre napoleoniche, fra imposte che si abbattevano su una popolazione già stremata e crescente indignazione per la mancanza di suffragio, portarono in Inghilterra a un'impennata del sindacalismo e via via fino alla grande manifestazione pacifica di St. Peter's Field, Manchester, trasformata dall'intervento della cavalleria nel massacro che passerà alla storia con l'ironico nomignolo di "Peterloo" (dall'appena avvenuta battaglia di Waterloo). Ma rinuncia con ironia a qualunque lettura dei fatti in sè, dunque ad ogni tensione drammatica. Per concentrarsi ex limine proprio su cosa significhi una simile lettura, cosa significhi raccontare la Storia.
Se la camera in cui alloggia nel contesto del genere è una singola, ha almeno un vicino di stanza illustre. Viene spontaneo paragonarlo a Lincoln (2012) di Steven Spielberg, anche quello film statico di magnifici arredi e costumi che creavano autentici tableaux vivants, in cui ogni inquadratura sembra il calco di un ritratto ad olio del presidente o di quei grandi dipinti tutti legno abiti scuri e bandiere che occupano gli androni delle camere di un parlamento; un film lungo, spossante, completamente affidato alla parola. Anzi una riflessione sulla parola nella Storia.
Visto questo però Lincoln inizia a sembrare un film d'azione. Vero, a differenza di Peterloo che dedica al massacro una fetta consistente dei suoi 154 minuti, glissava del tutto sulle battaglie inquadrando fugacemente soltanto i campi già coperti di cadaveri e preferendo gli interni e il dibattito dietro la Guerra di Secessione. Ma il dialogo incessante in Lincoln rispondeva a una funzione che non è solo simbolica o straniante: è in fondo tradizionalmente drammaturgica; costruttiva sia rispetto all'intricatissimo svolgimento della trama che alla figura del protagonista. La fatica di seguirlo - con Spielberg che non si preoccupava di fornire spiegazioni su nomi e questioni secondarie che diamo per scontato siano nuove anche per lo spettatore americano - veniva ricompensata. Peterloo invece chiarisce tutto. Ma ci lascia esattamente al punto di partenza nel senso del filo che lega gli eventi.
Non è un film di "dialoghi", e nemmeno di "monologhi". È un film di orazioni. Il suo è il linguaggio della retorica di piazza dei sindacalisti, di quella pomposa dei magistrati, di quella catchy dei giornalisti (l'agghiacciante finale), di quella d'alto borgo del "gran parlatore" e filantropo Henry Hunt il cui impareggiabile eloquio è il motivo per cui migliaia di persone si trovarono assiepate a St. Peter's Field, facile preda delle sciabole. È "per il popolo, per la libertà!" oppure "per l'ordine, la decenza!!" o ancora "per la democrazia!!!". Non sentirete un discorso normale in Peterloo; perfino nelle case di povera gente non si discute, si arringa la platea. Attenzione quindi a tutti i personaggi che non parlano, e ancor più a quelli che non vogliono parlare. Ce ne sono almeno due..
Se Spielberg si chiude nelle stanze del potere per mostrare che forse quei discorsi sono i fatti più rilevanti (gli unici?) Mike Leigh mette fatto e discorso su due piani completamente diversi. È importante notare che Peterloo arriva nella sua filmografia immediatamente dopo Turner (2014), pluripremiata biografia del pittore attratto da incendi e tempeste che meglio di tutti incarna lo spirito suggestivo, decuplicante del Romanticismo. Che non lasciava niente come l'aveva trovato ma espandeva, distorceva, riplasmava il mondo. Lo stesso mondo in cui John Constable, proverbiale altro polo di questa distinzione un po' schematica fra Sturm und drang e pace dei sensi all'interno dell'esperienza romantica, trovava quieto raccoglimento e riposo. Il mondo inquadrato da Leigh nelle bellissime sequenze di raccordo fra un'orazione e l'altra è questo, non quello di Turner. Il cielo splende azzurro, il fumo - anche se è fumo di fabbrica - sale tranquillo, il paesaggio collinare è dolce e imperturbabile.
La realtà al di fuori dei discorsi è quietas, è indifferente. Perfino un po' imbarazzante, per il nostro palato di spettatori abituati a massacri e battaglie, quando il regista mette in scena la mattanza probabilmente più realistica che mai vedrete su uno schermo e in cui quindi sembra succedere tutto a rilento, tutto spoglio di tensione e pathos e carico semmai di grottesca ironia. La realtà, soprattutto, è silenzio. Il film aveva aperto su un giovane soldato semplice scampato alla battaglia di Waterloo, con la tromba delle adunate al collo che riesce a suonare e anche una volta a casa resta ammutolito per lo shock. Qui Peterloo sembrava ancora epica storica, perchè la battaglia si era svolta fuori campo. Chissà quanto sarebbe stata buffa, non meno terribile nella sua goffaggine, a metterla in scena per davvero. E tuttavia da esseri umani ci serve un nome per ogni cosa. Torna Lincoln, sono le parole a fare la Storia. Ma Leigh non è un nominalista: di che cosa parlano?