di Luigi Ercolani
Il film Coppia aperta, quasi spalancata è stato presentato come la trasposizione in chiave cinematografica dell'omonima piéce teatrale scritta nel 1983 da Franca Rame e solo marginalmente da Dario Fo. Quella che quest'ultimo ha definito come l'opera più rappresentata della prolifica coppia è però in realtà un filo conduttore metanarrativo.
Il lungometraggio non è infatti il pedissequo adattamento della stessa. Risulta piuttosto, in effetti, più una chiave di lettura atta a permettere allo spettatore di meglio comprendere quanto accade nel contesto attorno all'opera stessa.
Ne scaturisce qui, anzitutto, una riflessione sull'influenza reciproca tra mondo reale e arte. Esattamente come il periodo storico in cui è stata scritta l'opera originale ha influenzato la medesima, così anche quello moderno ridefinisce in maniera più o meno marcata quanto gli attori portano in scena attualmente.
Risulta in questo senso interessante, soprattutto da un punto di vista culturale, l'approccio alla piéce della Chiara attrice-personaggio. All'interno della storia, infatti, la protagonista è in costante tensione tra l'attenersi in maniera rigorosa all'opera originale e il far entrare elementi che invece la rinfreschino.
Ciò accade perché il feedback alla sua rappresentazione non è sempre positivo. Se un certo pubblico appartenente all'età matura, infatti, dimostra di apprezzare lo spettacolo, quello più giovanile fatica a comprenderlo, o addirittura si pone esplicitamente di traverso, non riconoscendo come proprio nulla di quanto portato in scena.
Il gap generazionale diventa qui un fattore cruciale. Un'opera pensata come moderna nel tempo in cui è stata scritta è invece pregna di elementi arcaici per i figli o nipoti del pubblico per il quale è stata scritta, che hanno portato la modernità della forma mentis oltre la concezione di chi li ha proceduti: una percorso progressivo fisiologico, ma che allo stesso tempo però suggerisce una riflessione amara su quanto anche le opere d'arte siano sottoposte ad un processo di invecchiamento e di sostituzione (non sempre in meglio).
Proprio da questo input negativo che Chiara riceve nasce sua la necessità di approfondire, di capire ancora di più quella che è la realtà poliamorosa che lei sta portando in scena. Quanto apprende, però, va oltre le sue aspettative.
Nella sua ricerca di nuovi elementi, la protagonista si trova infatti di fronte ad un contesto che a parola predica l'apertura, ma che nei fatti si rivela invece estremamente chiuso, e votato all'autoreferenzialità. Non vi è alcuna possibilità di eccepire, anche in maniera assertiva e dinamica: lo spirito critico dell'artista qui viene rintuzzato da una polifonia di voci che insiste non solo sull'avere ragione, ma anche sull'avere ragioni per avere ragione.
Di fatto guardata con compatimento per non riuscire a trovarsi in completo accordo con quanto ha raccolto, Chiara appare quindi come una voce dal passato che fatica a farsi comprendere da un presente che è invece maggiormente concentrato a far sentire la propria voce, più che ad ascoltare quella altrui. E che per questo inevitabilmente perde spunti fondamentali nell'ottica di un discernimento personale.