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Da 5 Bloods


di Lorenzo Meloni

Sbarcato su Netflix come un fulmine a ciel sereno nel pieno delle proteste razziali innescate dell'assurdo omicidio di George Floyd, Da 5 Bloods di Spike Lee è certamente un instant movie come pochi negli ultimi anni, ma il suo contributo alla temperie americana odierna sembra almeno parzialmente in controtendenza rispetto al monolitico sentimento di indignazione di questi giorni. Abbiamo imparato ad attenderci da Lee più dubbi che risposte, e queste due ore e mezza ne seminano a profusione, mischiando con libertà espressiva a tratti frastornante denuncia storica e proclama emancipatorio, ricognizioni da storico della blackness al cinema e raggelanti riflessioni sulle derive più recenti dell'identità afroamericana.


Come già in Malcolm X, Bamboozled e Blackkklansman, il discorso di Lee sul problema razziale americano passa per l’esame minuzioso della sua immagine riflessa sul grande schermo: le trappole esplosive della ghettizzazione sono individuate, esposte con parole e immagini in stile lecture universitaria e infine disinnescate; se nel fallimentare Miracolo a Sant’Anna la storia della liberazione dell’Europa da parte degli Alleati veniva “corretta” con l’inclusione del contributo afroamericano, stavolta Lee fa la stessa cosa con la guerra ingiusta per antonomasia della storia americana, il Vietnam. E riesce a spremerne una quantità sconsiderata di rimosso, colpa e contraddizione.

Proprio il Vietnam è l’Alfa e l’Omega di Da 5 Bloods, una metafora perfetta nella sua caleidoscopica complessità, aggredibile e aggredita da molteplici punti di vista: è l’ennesimo luogo di sfruttamento, carneficina e cancellazione dei neri dalle pagine della storia americana; è lo specchio in miniatura del paese invasore, come esso squassato da una sanguinosa divisione interna che perdura ben oltre la durata ufficiale del conflitto; è lo sfondo di un iniziatico a rebours dove la caccia al tesoro di quattro “pirati” si fa dialogo serratissimo fra prerogative culturali, storiche e psicologiche. Va come al solito ammirata la capacità di Lee di celebrare e discutere al contempo: dalla denuncia e dal moto di orgoglio (come in Blackkklansman si ha spesso l’impressione di trovarsi di fronte a un ideale murales della cultura afroamericana in tutto il suo splendore visivo, artistico e morale) si passa al grido di allarme per un’unità pericolante: il tempo di Malcolm X e del dottor King è passato, essere bloods (fratelli di sangue) non ha più il significato di un tempo, la comunità è divisa, sempre più piagata dall’avidità e rosa dall’egoismo.



Proprio per questo – fra i quattro ex-veterani che al giorno d’oggi tornano in Vietnam per dissotterrare svariati milioni di dollari in lingotti d’oro – la parte del leone spetta al discutibile personaggio interpretato da Delroy Lindo, attore che a Lee aveva già regalato prove superbe in Malcolm X e soprattutto Clockers, ma che in Da 5 Bloods trova finalmente il ruolo di una vita: il rude ex-G.I. con disordine da stress post-traumatico, grilletto facile e scintillio pericoloso negli occhi, trumpista e padre anaffettivo, è la creazione più riuscita del film, un’ideale negativo (pur celando in sé un’umanità straziante) talmente perfetto e cristallizzato da poter reggere il confronto con il fantasma del gruppo, il quinto fratello Stormin’ Norman (Chadwick Boseman) le cui ossa il quartetto intende riportare in patria, morto in missione nel 1971 ma che non ha mai cessato, col suo idealismo da campione perfetto della causa civile, di turbare i sogni degli amici superstiti.

Il confronto tra l’ideale quasi messianico dei tardi anni ‘60 e queste persone in carne ed ossa non può che essere dolorosamente in perdita, ed è con un misto di nostalgia e amara presa di coscienza che Lee rivisita l’iconografia di un tempo, sfruttando genialmente la forza immaginifica della guerra in Vietnam (la più “interiore” della storia americana) come catalizzatore del confronto a distanza. Affascinante a questo proposito paragonare Da 5 Bloods con un altro film di vecchi alle prese col passato come The Irishman di Scorsese, che aveva fatto discutere per la scelta estetica di ringiovanire al computer De Niro, Pesci e Pacino. Qui, invece, Lee inventa una soluzione geniale nella sua semplicità: nei molti flashback solo l’amico defunto interpretato da Boseman è nel fiore degli anni, mentre tutti gli altri hanno l’aspetto senile di quarant’anni dopo. Un espediente fantastico per rendere il senso di rimembranza, ma anche metaforico del decadimento (biologico e morale insieme) di una collettività ormai lontana dai propri fasti incarnati da eroi per sempre “giovani e belli”. Da 5 Bloods è un viaggio in un incubo rimasto finora senza uscita, e si nutre di precedenti illustri riadattandoli alle prerotagive civili dell’autore: l’itinerario verso Stormin’ Norman ribalta la discesa al Cuore di Tenebra di Kurtz in Apocalypse Now; una cecchina vietcong ricorda quella del finale di Full Metal Jacket; quando un vietnamita odierno, ancora roso dall’odio per lo Zio Sam, si presenta come poliziotto, alla richiesta di esibire un distintivo risponde come il bandito del Tesoro della Sierra Madre di Huston: “We don’t need no stinkin’ badges”. E come il trio capeggiato da Humphrey Bogart in quel capolavoro, i quattro Bloods superstiti vanno incontro a se stessi, alla paradossale follia della propria condizione.

Forse Da 5 Bloods è l’ultimo grande Vietnam movie possibile. Di sicuro è un passo fondamentale nel percorso di Spike Lee quale coscienza storica della comunità afroamericana, suo raddrizzatore di torti, aggiornatore di cronache e battagliera voce morale. Ma è soprattutto un grido di orrore e confusione, ripetuto due volte come quello di Kurtz: “Madness..madness”.



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