di Lorenzo Meloni
Marcello è solo un ometto in una periferia plumbea e senza pietà, ma prova per quanto può a rigare dritto mentre tiene da parte per la sua bambina quel che guadagna accudendo e rimettendo in sesto gli amati cani. Dolcissimo racconto dell'orrore - liberamente ispirato al celebre fatto di sangue del "canaro" - Dogman segna per Matteo Garrone un ritorno a casa. Dopo aver rincorso l'amore e la disillusione lungo i caroselli via via più vorticosi di Reality e Il racconto dei racconti il regista torna a cercarli per le basse della sua Roma, e a tutt'altro tipo di fiaba: il noir ostiense umido d'inchiostro (qui c'è la Magliana ma fa lo stesso), di cui è massimo esempio recente Non essere cattivo (2015) e che Garrone padroneggia dai tempi dell'Imbalsamatore (2002).
È da due direzioni che Dogman salta alla gola dello spettatore e non lo lascia respirare per la successiva ora e tre quarti. La prima, e visti i meritati riconoscimenti quasi un'ovvietà, affidandosi a un pugno di interpreti tanto in simbiosi con scrittura e direzione intelligenti da farci letteralmente dimenticare di essere attori. Edoardo Pesce non interpreta, incarna il nevrile gigante di borgata Simoncino. Quanto a Marcello Fonte, che a Cannes ha stregato tutti con il suo candore, nel film fa questo e molto di più: la sua maschera disarmante dagli enormi occhi castani è la chiave di volta dell'intera costruzione, la sua coerenza e credibilità, "er barcarolo" per noi visitatori della palude stigea che è il suo mondo.
La seconda, appunto, il talento di Garrone per l'ambiente, la capacità di evocare a un livello sensoriale la malattia di questa suburbia spettrale. Facendo sentire la concretezza di ogni luogo, gesto, persona. Dogman è un film che fa paura, non quella sottile di un buon thriller o horror ma una paura fisica. Lo si guarda tesi come una corda di violino, con la stessa sensazione agghiacciante di quando si cammina da soli di notte, sicuri di essere seguiti senza alcun motivo oltre a una voce atavica nello stomaco, e viene da correre a perdifiato, da girarsi continuamente intorno sobbalzando al minimo rumore. Tutto è amplificato dalla presenza di Marcello, dalla dolcezza e vulnerabilità fisica che lo rendono ad ogni passo una vittima potenziale, con gli altri personaggi che sembrano sempre più farglisi attorno come cerchi concentrici di una morsa concreta e soffocante.
Comincia subito con un soprassalto, il latrato sordo di un pit bull incatenato. Ma lui i cani li sa prendere per il verso giusto. "È con l'amore che curi la paura", così cominciava Estate romana dello stesso Garrone. Tutto in questo personaggio è amore, desiderio di pace e di inclusione, in un continuo sconfinare fra ingenuità infantile e una sorta di superiore saggezza. Garrone racconta da sempre il sodalizio difficile fra la lotta per la sopravvivenza e la creatività con cui si prova a riempire un mondo vuoto. Nel suo Ospiti (1998) avevamo tre coppie di personaggi, sempre quello con i piedi per terra e il sognatore, l'artista, il folle. Il "canaro", con tutta la sua ingenuità, è riuscito a trovare l'equilibrio. Il suo è in un certo senso il mestiere di un artista (partecipa pettine e forbici alla mano alle mostre canine), fatto per amore e con passione. Marcello ha trasformato una gabbia in un rifugio. Ma anche fuori dalla sua piccola clinica-bottega corrono i cani, cani sciolti che non vogliono il suo aiuto..