di Luigi Ercolani
Viene denominata “Hollywood sul Tevere” quella peculiare fase storica in cui, all'inizio degli anni Cinquanta, la florida cinematografia statunitense mette le tende a Roma. Cinecittà, che era caduta in rovina durante la Seconda Guerra Mondiale, si rilancia infatti anche grazie all'apporto dei kolossal che le major a stelle e strisce, a cominciare dalla Metro-Goldwyn-Mayer, scelsero di girare alcune loro produzioni nel nostro Paese.
La Città Eterna diventa, in quel momento, il cuore pulsante della produzione di Hollywood nel Vecchio Continente. Qui nascono lungometraggi classici, intramontabili, quali fra i tanti Quo vadis? (Mervyn LeRoy, 1951), Vacanze romane (William Wyler, 1953), Ben-Hur (William Wyler, 1959), Cleopatra (Joseph L. Mankiewicz, 1961) e La caduta dell'Impero Romano (Anthony Mann, 1964).
L'immaginario collettivo, provato dalla falsa visione proposta durante il Ventennio e dal brusco risveglio imposto dal conflitto, lì entra in contatto con una nuova dimensione, fino a quel momento pressoché sconosciuta alla popolazione italiana. La calata a Roma di star internazionali del calibro di Kirk Douglas, Audrey Hepburn, Charlton Heston, Gregory Peck ed Elizabeth Taylor offre agli italiani un assaggio di quel divismo che essi avevano modo di conoscere solo di riflesso, tramite le cronache provenienti da oltreoceano.
Questo fenomeno fa brillare gli occhi una popolazione piegata dalla Guerra, e tuttavia bisogna evidenziare che esso abbia altresì un suo naturale rovescio della medaglia. Accanto ad anteprime, provini, premiazioni e grandi maestranze, fanno infatti parimenti capolino sulla scena (è proprio il caso di dirlo) nostrana anche sfarzosi eventi mondani, ricerca del divertimento sfrenato e sordidi scandali provocati da vizi segreti.
È proprio da tale contesto che prende l'abbrivio Finalmente l'alba, ultimo film di Saverio Costanzo. Il regista figlio d'arte, per la precisione, parte da un quadro storico ben preciso per fare, come dichiarato da lui stesso, un film sul mondo dello spettacolo, soprattutto sulle ambizioni e la vanità che lo caratterizzano.
La scelta della prospettiva di una protagonista proveniente dalla classe media pare infatti mirata a evidenziare che, per quanto le fasce popolari vedano nei divi un modello a cui aspirare, questi ultimi appartengono ad un empireo non solo difficilmente raggiungibile, ma anche pressoché incomprensibile ad una persona comune. Costanzo sembra quasi voler mostrare allo spettatore che vivere perennemente con la luce dei riflettori puntata addosso, i rotocalchi sempre pronti a documentare ogni aspetto della propria condotta e l'ansia delle aspettative del pubblico sbalza gli attori in una dimensione che, nel bene e nel male, giocoforza si allontana dalla vita quotidiana, che magari pure loro stessi, prima della notorietà, hanno sperimentato.
Se l'attore già di per sé l'attore è un mestiere che richiede di uscire dal proprio io per entrare in un'altra persona, al punto che qualcuno arriva anche ad avere problemi di autogestione in merito, ciò viene tanto più amplificato quanto ampia è la fama che si è ottenuta. Il regista, tuttavia, mette in guardia: è vero che la risonanza mediatica innalza mette su un piedistallo, ma non bisogna dimenticare che dietro ogni interprete c'è sempre una persona, che come tutte le persone può vivere momenti di esaltazione così come di crollo emotivo.
Entrambi però, come sottolineato, sono portati fino alle estreme conseguenze dalla popolarità di cui un attore gode. Anche questo è il cinema, bellezza.