Al poeta che riusciva a lanciare il guardo oltre la siepe, al giovane favoloso che incantò il romanticismo italiano, a Giacomo Leopardi quel figlio dei nobili di Recanati che ha dato voce agli ultimi.
Oggi, 29 giugno di 225 anni fa, nacque il primo di dieci figli della famiglia Leopardi. Conte il padre e nobildonna la madre, Giacomo crebbe in un’ambiente benestante e severo, a causa delle credenze della madre, ligia a un profondo concetto di dignità nobiliare. Nella piccola città di Recanati, nelle Marche, Giacomo ricevette la migliore istruzione da precettori ecclesiastici che, comunque, non gli impedirono di ampliare le sue conoscenze autonomamente presso la biblioteca paterna. In quelle sale in penombra e piene zeppe di libri antichi, il giovane Leopardi passava intere giornate. A quegli anni, dal 1808 al 1812, risalgono i puerili ovvero i suoi primi sonetti in latino.
Nel 1809 inizia a attraversare un periodo noto ai più, quello di studio matto e disperatissimo. Anni di depressione, probabilmente, in cui il neanche vent’enne Giacomo si rinchiude in casa per apprendere il più possibile: impara perfettamente il latino, il greco e, più superficialmente, l’ebraico, lo spagnolo e l’inglese. Legge i più grandi maestri di letteratura di tutto il mondo e traduce diverse tragedie classiche. Stare continuamente piegato sui libri, però porta il ragazzo a avere ben presto problemi reumatici. È estremamente cagionevole e raramente riesce a allontanarsi di casa.
Le sue prime composizioni hanno un fondamento obiettivo, precetti figli dell’erudizione. Ma dopo alcuni anni si avverte nel suo stile una profonda crisi spirituale che lo porta a scrivere, ora, del bello. Legge Alfieri, Parini e Goethe, si rende conto di star stretto nella cultura recanatese e getta le basi per iniziare a liberarsi dei precetti paterni per trovare la sua strada. Questi precisi studi lo portano a avvicinarsi al neoclassico e spostarci, ulteriormente, dal bello al vero. Abbraccia una poesia sentimentale che definisce l’unica ricca di riflessioni convincenti e bisognosa di una definizione. Inizia così a scrivere Lo Zibaldone dove cerca di spiegare la teoria delle passioni umane. Con un totale di oltre quattro mila pagine, Leopardi continuerà a incrementare lo Zibaldone di pensieri fino a quasi la sua morte.
Nel 1819 l’autore viene colpito da dei seri problemi agli occhi. In quegli anni di buio scrive gli Idilli e il noto Infinito. Nella nota lirica, Leopardi trasmette il suo senso di solitudine e le solide radici ancorate a quel colle dov’è cresciuto insieme all’irrefrenabile desiderio di spiccare il volo e raggiungere quell’infinito che riesce solo a immaginare e dentro al quale non può far altro che naufragare.
Nel 1822 ottiene il permesso dai genitori di lasciare il borgo e andare a Roma, la prima delle tante città italiane percorse dal giovane. Visita Milano, Firenze, Bologna e resta ammaliato dai colori di Napoli. Si trova proprio lì quando scoppia la dilagante epidemia di colera che lo trasporta in un clima di morte e disperazione. Un tremendo presagio, forse, della morte che lo coglierà proprio in quella città nel giugno 1837.
Pochi anni prima, Leopardi aveva scritto la sua penultima lirica La ginestra nel tentativo di dare all’uomo un modello da seguire. Questo arbusto, infatti, è capace di resistere alle intemperie più aggressive; è flessibile e resistente. Un po’ tutto il contrario di quello che era stato il poeta in vita.
Eleonora Poli