di Lorenzo Meloni
Nato nel 1927 in Florida da genitori giamaicani, Don Shirley fu un prodigioso pianista e compositore americano. "Una specie di genio, credo" dice l'altro protagonista di questo film. Scorrendo la sua voluminosa pagina Wikipedia scopriamo che "scrisse sinfonie per organo, concerti per pianoforte e violoncello, tre quartetti d'archi, un'opera in un solo atto, un poema tonale sinfonico basato sul Finnegan's Wake di Joyce e una raccolta di Variazioni ispirate al mito della catàbasi di Orfeo". Iniziato allo strumento a due anni, all'età di nove fu ammesso al Conservatorio di Leningrado. A diciannove anni eseguì una sua composizione con la London Philarmonic Orchestra. Più avanti, abbandato per breve tempo il piano, si sarebbe guadagnato il dottorato in Musica, Psicologia ed Arti Liturgiche alla Catholic University di Washington, D.C.
Evidentemente non abbastanza, nell'America di quegli anni. Ferito dall'handicap costituito dal colore della sua pelle, Shirley prima diversificò la propria attività con una personale revisitazione in chiave classica del Jazz che gli garantì maggior presa sul pubblico. Poi, risoluto a "cambiare la mentalità di un po' di gente", negli anni '60 si imbarcò in un tour di concerti nel Sud degli States. " - Atlantic City? - - No. Il profondo Sud. - ". Tennessee, Kentucky, Texas, Mississippi, Alabama. In piena segregazione razziale. Non si andava laggiù a cuor leggero, col completo su misura e i modi raffinati dell'alta società. Shirley lo sapeva bene, così si mise in cerca di un accompagnatore e lo trovò: si chiamava Tony Vallelonga, eccellente diretto destro, buttafuori nei locali della mala italo-newyorkese. Gli fece da autista e guardia del corpo per tutta la durata del tour.
Green Book, spettacolo edificante da tradizione Dreamworks e probabile mattatore all'imminente cerimonia degli Oscar, legge il rapporto fra i due come progressivo avvicinamento fra l'afroamericano colto, snob e facoltoso, al riparo nella sua torre d'avorio ed ignaro dei costumi della "sua gente", e l'Italiano più "nero" di lui, ignorante ma verace, razzista ma (neanche tanto in fondo) dal cuore grande. Ognuno ha da imparare dall'altro, il che puntualmente accade, e fa in tempo a sbocciare l'amicizia prima che il film finisca in puro stile Dickens/Capra con una grande tavolata in famiglia la sera della Vigilia.
Inizia con la dicitura "tratto da una storia vera". Può anche darsi, uno perchè i fatti narrati sono grossomodo autentici, due perchè ogni punto di vista su una storia è vero per chi la racconta. Interessante quindi, in assenza dei due protagonisti (che ci hanno lasciato nel 2013 a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro per la gioia di queste vecchie volpi del magone al cinema) la posizione delle famiglie. Anni dopo la sua avventura Tony Vallelonga intraprese una fortunata carriera da attore, che lo portò a recitare per sei anni (2001-2007) ne I Sopranos dopo aver fatto capolino con la sua bella faccia vissuta in film del calibro di Il padrino, Quei bravi ragazzi e Carlito's Way. Oggi suo figlio Nick è fra gli autori della sceneggiatura, piena di aneddoti di prima mano del papà, che complice la prova di Viggo Mortensen ne fa l'eroe morale del film nonchè i nostri occhi sulla vicenda.
Tanti anni fa Shirley si era invece fermamente opposto a un biopic su di lui, e gli eredi ne hanno rispettato le volontà non dando mai l'ok. Bypassati con la massima serenità se è vero che Mahershala Ali, eccezionale interprete di Don nel film, non ha neanche saputo dell'esistenza di parenti fino a riprese bell'e ultimate, e ha chiamato personalmente la famiglia per scusarsi dell'eventuale poca veridicità di questo ritratto. Loro raccontano una storia diversa, potenzialmente molto più interessante ma oggi come oggi difficilmente filmabile. "Non furono mai amici. Vallelonga era il suo chaffeur e gli guardava le spalle, punto". Ancor meglio, "Non crediate sia un caso se volle come dipendente un uomo di pelle chiara e non uno del suo stesso colore, per quel tour nel Sud. Aveva qualcosa da dimostrare".
Niente di tutto ciò. Questo non è il film di Don, forse in fondo neanche quello di Tony, che sempre se quei racconti sono veri ipotizziamo sarebbe a sua volta meno conciliante. È una fiaba basata sulla loro storia, pensata per trionfare in una cerimonia liberal in cui concorre Black Panther (clamoroso, superomistico autorazzismo oltre che brutto film) e in cui non si dà niente più a sinistra di BlacKkKlansman, non certo una carezza ma pur sempre animato da ideali conciliatori. Si può attaccarlo da ogni parte: tra le cose già dette, che Shirley non varrebbe come modello black perchè sarebbe un "bianco dipinto di nero", che affannandosi a rendere gretto e proletario Vallelonga anzichè sconfiggere lo stereotipo del "negro" si rafforza quello dell'italoamericano cafone, che a un afroamericano non è consentito essere colto ed upper class senza che questo ne sminuisca la genuinità della sua appartenenza razziale (aiuto!), che non vi compaiano persone ma solo clichè ambulanti fra cui però, per combinazione, manca quello del bianco wasp, del tutto sottratto alle sue responsabilità.
Ma Green Book commuove, mette di buon umore, e per cinquanta minuti abbondanti ribalta dalle risate. Si deve tutto, oltrechè alla professionalità in fase di regia e ricostruzione d'ambiente, alla bravura degli attori. Ali è stupefacente nella sua eleganza un po' rigida, capace di coprire una gamma vastissima di emozioni (per la maggior parte fastidio, disapprovazione o disgusto) con minuscole variazioni della mimica facciale, e genialmente sottolinea ogni azione con gesti delle dita lunghissime e mobili. Sempre e comunque un virtuoso del piano. Poi Viggo Mortensen: passato lo shock di vedere il bellissimo del Signore degli anelli ingrassato di 13 chili, ci accorgiamo che la tempra e la fibra morale di Aragorn abitano anche in Tony. Vederlo ingozzarsi è una soddisfazione inspiegabile (non fa altro che mangiare per la prima ora di film), com'è inspiegabile la sua capacità di sfumare e scavare piccole intercapedini in un personaggio apparentemente tanto monodimensionale e insieme di far ridere sempre e di gusto con una verve da comico di razza che malgrado tante grandi interpretazioni non gli attribuivamo. Sono entrambe prove colossali, giustamente candidate alla statuetta. Grazie ad esse e al ritmo implacabile della parte centrale due clichè prendono vita, divengono amabili, finchè si vorrebbe entrare nello schermo per abbracciarli. È la magia di Hollywood, diabolica e compromissoria, capace di prendere un concept cerchiobottista quando non lievemente retrogrado e cavarne calore, umanità, positività. Anche nostro malgrado. "Adorabile" sovrasta (e neutralizza) "discutibile".