di Matteo Lolli
Rambaldo trascina un morto e pensa: «O morto, io corro corro per arrivare qui come te a farmi tirare per i calcagni. Cos'è questa furia che mi spinge, questa smania di battaglie e d'amori [...]? Ci penso, o morto, mi ci fai pensare; ma cosa cambia? Nulla. Non ci sono altri giorni che questi nostri giorni prima della tomba, per noi vivi e anche per voi morti. Che mi sia dato di non sprecarli, di non sprecare nulla di ciò che sono e di ciò che potrei essere. Di compiere azioni egregie per l'esercito franco. Di abbracciare, abbracciato, la fiera Bradamante. Spero che tu abbia speso i tuoi giorni non peggio, o morto. Comunque per te i dadi hanno già dato i loro numeri. Per me ancora vorticano nel bussolotto. E io amo, o morto, la mia ansia, non la tua pace».
Il 2023 è l’anno in cui ricorre il centenario della nascita di Italo Calvino, unanimemente considerato tra i più importanti narratori italiani del secondo Novecento. Nell’arco della sua quarantennale carriera di scrittore Calvino ha sperimentato diversi generi letterari, tra i quali rientra – in omaggio alla sua predilezione, tra i tanti classici della nostra letteratura, per Ludovico Ariosto – la narrativa fantastica di matrice cavalleresca. È il caso del Cavaliere inesistente, pubblicato nel 1959 sul finire di un decennio in cui, dopo il fortunato esordio “neorealista” del Sentiero dei nidi di ragno (1946), Calvino aveva scritto altri due romanzi fantastici, Il visconte dimezzato e Il barone rampante. Il cavaliere inesistente è dunque da considerarsi il terzo e ultimo tassello di una trilogia che lo stesso Calvino ha voluto raccogliere in un unico volume (I nostri antenati).
A differenza di Ariosto e del suo Orlando Furioso, però, ciò che più conta in questo romanzo – come sempre d’altronde, quando si tratta di Calvino – non è tanto la presenza o meno di un mirabolante e avvincente intreccio romanzesco di peripezie, agnizioni e scioglimenti: ben diversamente dai poemi epico-cavallereschi antichi e moderni, infatti, Il cavaliere inesistente è un libro breve ed estremamente “condensato”, di poco più di un centinaio di pagine. Piuttosto, ad essere davvero importante è l’idea di fondo su cui si innesta la storia, lo “scheletro strutturale” che sta alla base della vicenda: come nel caso degli altri due romanzi della trilogia, qui ad essere preminente rispetto alla trama è il significato allegorico ad essa sottesa, che costituisce la chiave di lettura privilegiata ed il senso più profondo del romanzo. Lo afferma d’altronde Calvino stesso, sostenendo che «il cavaliere inesistente è una storia sui vari gradi d’esistenza dell’uomo, sui rapporti tra esistenza e coscienza, tra soggetto e oggetto, sulla nostra possibilità di realizzare noi stessi e di entrare in contatto con le cose; è una trasfigurazione in chiave lirica di interpretazioni e concetti che ricorrono continuamente oggi nella ricerca filosofica, antropologica, sociologica, storica».
Ed ecco che quindi il racconto gravita, strutturalmente, attorno a due figure semplici e complementari. Da un lato Agilulfo, il cavaliere inesistente, che “non c’è ma sa di esserci”, la cui inesistenza consiste nel suo essere un vero e proprio “intelletto disincarnato” collocato dentro una vuota armatura: ne risulta un automa simil-contemporaneo, una figura dis-umana animata da un formalismo comportamentale che lo rende pedissequamente meticoloso e meccanicamente robotizzato in ogni suo gesto ed espressione; dalla parte opposta c’è la figura di Gurdulù, che “non sa di esserci ma c’è”, esattamente al contrario di Agilulfo, e che viene a quest’ultimo comicamente assegnato come scudiero. Quella di Gurdulù è la figura prototipica di un’esistenza priva di coscienza e dunque incapace di distinguersi da ciò che la circonda, di un’umanità ferma ad uno stadio pre-cosciente, ad una primordiale e tutta sensoriale identificazione col caos del “mondo oggettivo”. Ma, come si diceva, Agilulfo e Gurdulù sono “protagonisti” soprattutto dal punto di vista della struttura del racconto, dell’ispirazione iniziale che sta alla base dello schema narrativo calviniano. Invece, la trama ed i risvolti più filosoficamente interessanti della vicenda sono proiettati sulle varie figure che, a vari livelli, si collocano nel mezzo della “scala esistenziale” di cui il cavaliere e il suo scudiero costituiscono gli estremi: il giovane e focoso Rambaldo, il cupo e scettico Torrismondo, la fiera e indomita Bradamante e la placida e passiva Sofronia sono infatti la rappresentazione narrativa di figure pienamente e verosimilmente umane, composte da anima e corpo insieme, “esserci e non esserci” che lottano all’interno della stessa persona in un incessante tentativo di definizione della propria identità. È in particolare Rambaldo ad incarnare più compiutamente la sintesi imperfetta e sempre movimentata tra essenza ed incompiutezza, tra ciò che l’individuo è già e ciò che vuole essere, in un’inevitabile tensione verso il superamento e l’ampliamento di se stesso e in un continuo tentativo di colmare le mancanze.
Rambaldo è un giovane ed inquieto soldato giunto tra i paladini di Carlomagno in cerca del proprio posto nel mondo (come tutti i giovani, del resto: ed è per questo che Calvino afferma che «chi non sa ancora se c’è o non c’è, è il giovane; quindi un giovane doveva essere il vero protagonista di questa storia»); risulta subito scosso e spaesato dall’attrito con il mondo stesso da cui pensava ingenuamente di poter trovare inequivocabili prove in grado di conferirgli una precisa identità, poiché la causa della guerra contro i saraceni si rivela ai suoi occhi un assurdo insieme di cieca burocrazia e vuote attribuzioni militari. Saranno due incontri fortuiti e decisivi ad indicargli una strada verso una maggiore compiutezza personale: quello con la bella e superba Bradamante, guerriera di parte cristiana di cui si innamora immediatamente senza riuscire però a fare breccia nella sua indole altera ed impenetrabile, e quello con l’impeccabile e “perfetto” Agilulfo, il cavaliere inesistente agli occhi del quale l’inquieta ricerca esistenziale di Rambaldo costituisce qualcosa di incomprensibile. Ma anche Agilulfo, pur non dovendo conciliare alla propria forza di volontà puramente astratta i limiti e le imperfezioni di una persona umana, è chiamato a mettersi in gioco per verificare la propria identità: quando infatti viene messa in dubbio la validità dell’impresa in seguito alla quale ha ottenuto il titolo di cavaliere (dando così alla propria inesistenza carnale la forma esterna di una vuota armatura), perfino l'inesistente Agilulfo vede vacillare le proprie certezze, ed è dunque costretto a confrontarsi con il mondo di chi davvero esiste per continuare a mantenere la sua disincarnata e cieca forza di volontà nell’involucro pseudo-esistenziale costituito da un’armatura…
Vero è che, come dicevamo, più che alla trama Calvino dà priorità al “significato emblematico” del testo, alla traduzione delle immagini narrative in concetti speculativi (e tale ispirazione “teorica” pre-esistente alla storia si rivela assolutamente geniale; ma ciò stupisce poco, trattandosi di Calvino). Ma Il cavaliere inesistente si può leggere anche «prescindendo da tutti i possibili significati», come ci suggerisce il suo autore: e questo non è che l’ennesimo pregio di un testo dal valore straordinario.