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Il mio giardino persiano

Aggiornamento: 2 ore fa

di Luigi Ercolani


È stato l'analista geopolitico Dario Fabbri, di recente, a raccontare il contesto sociale e culturale in cui ebbe luogo la rivoluzione iraniana del 1979. Il direttore della rivista “Domino” ha infatti raccontato, in numerosi incontri, che quella di Khomeini fu una presa di potere sui generis, inspiegabile con le categorie epistemologiche occidentali.

Entrando nello specifico, Fabbri ha portato alla luce che l'ayatollah, rifugiato a Parigi in quanto oppositore politico dello scià Palavi, nella capitale francese rimase folgorato dall'esperienza dei moti rivoluzionari settecenteschi. La sua idea, sintetizzando, fu quella di traslare lo stesso tipo di esperienza nella sua terra d'origine.

Oltre ad essere un regime anch'esso largamente repressivo l'Iran dello scià aveva diffuso una narrazione che marginalizzava l'importanza della fede islamica, prendendo invece come riferimento la Persia antica. Un controsenso, dal momento che in quel momento Teheran aveva anche un forte legame con gli Stati Uniti, ovvero l'impero la cui potenza imperialistica aveva già iniziato ad albeggiare in quel periodo.

Khomeini si mise quindi alla testa di una rivoluzione sì borghese, e dunque in questo simile a quelle che l'avevano preceduta, ma che possedeva una natura teocratica, prima assente. Quest'ultimo è un elemento che stava bene ad un'ampia fetta della popolazione, in quanto rappresentava (e rappresenta ancora) un tratto di alterità rispetto all'Occidente.

Tale lunga premessa era doverosa per comprendere appieno, senza farci fuorviare dalle nostre categorie ermenutiche, non solo il contesto socio-politico iraniano, ma anche le conseguenti espressioni culturali che giungono fino a noi. E Il mio giardino persiano, da questo punto di vista, finisce purtroppo per mettere in mostra ciò che lo spettatore europeo si aspetta di trovare in un film iraniano.

Sullo sfondo della vita solitaria condotta dalla sessantenne Mahin, vedova da molto tempo, lo spettatore vede infatti stagliarsi in maniera potente e prepotente l'ombra oppressiva del regime dell'attuale ayatollah, Khamenei. E non tanto e non solo per la presenza della polizia morale all'interno del lungometraggio, peraltro limitata ad un un unico intervento.

A caratterizzare lo sviluppo della narrazione è infatti soprattutto un'ambientazione fatta di sospetti, delazione, segreti da nascondere, sguardi indiscreti da evitare, libertà impossibili da prendere. E se questo è vero per la popolazione nel suo complesso, lo risulta drammatico in particolare per le donne, la cui condizione è senza alcun dubbio irta di un numero maggiore di ostacoli rispetto a quella degli uomini.

Una rappresentazione come questa risulta certamente in parte veritiera, e non avrebbe senso affermare altrimenti. Durante la visione non si riesce tuttavia a scacciare la sensazione che quanto scorre davanti agli occhi sia frutto di una visione esacerbata a tavolino allo scopo di suscitare lo sdegno dello spettatore.

Da questo punto di vista Il mio giardino persiano si avvicina molto di più a Tatami che a Leila e i suoi fratelli. Il pregio maggiore di quest'ultimo, al contrario dei primi due, è che, essendo stato prodotto con fondi unicamente iraniani, offre forse una prospettiva potenzialmente più veritiera della società iraniana e delle sue dinamiche, nonostante anch'esso sia stato successivamente ostracizzato dal regime a causa, sostiene il regista, della mancata censura di alcune scene.

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