di Lorenzo Meloni
"Spencer mi ha appena insegnato a giocare a un videogame."
(Nonno Eddie/Danny De Vito)
I due nuovi Jumanji, Welcome to the Jungle (2017) e The Next Level (2019) rappresentano qualcosa di più che non meri aggiornamenti tecnologici dell'originale di Joe Johnston (1995), divenuto negli anni un piccolo classico del cinema per ragazzi. Merito anzitutto di una proposta narrativa inedita, basata su un escamotage come quello dello "scambio di corpi", che rompe con l'home (e poi town) invasion del prototipo per trasformare il più pericoloso gioco di ruolo del cinema d'avventura in un "gioco di ruoli" teso a ridiscutere le nostre identità e relazioni reciproche; ma anche, più indirettamente, della possibilità che i due film offrono di misurare l'upgrade dello spettatore contemporaneo nei confronti di un mondo virtuale sempre più vicino e familiare, assurgendo a utile metro di paragone fra due epoche non soltanto del cinema blockbuster americano, ma della percezione del ruolo svolto dalla tecnologia nella costruzione dei processi identitari.
Nel quarto di secolo da quando, sulla scia di Terminator 2 (1991) e Jurassic Park (1993) Jumanji contribuiva a dimostrare le potenzialità narrative della Cgi, il mondo è cambiato: la tecnologia digitale si è fatta parte integrante della vita di tutti i giorni, vero e proprio ecosistema sociale continuamente arricchito da nuove forme d'interazione, fra cui - mai dimenticarlo - ruolo prioritario hanno le avventure condivise, le esplorazioni reciproche e le sfide a distanza del gaming. È quindi fisiologico che stavolta i giocatori abbandonino i dadi per impugnare un pad ("..chi gioca più ai giochi da tavolo?"), ed è dalle possibilità di rimescolamento dei ruoli sociali/stereotipi cinematografici, aperte da questo tipo di esperienza videoludica, che scaturiscono tanto il divertimento quanto il nerbo tematico della bilogia reboot.
Volendo tracciare un parallelo fra protagonisti e creatori/spettatori, potremmo dire che fra chi realizzò o vide Jumanji nel '95 e chi vede o lavora oggi ai suoi seguiti, corre, in rapporto all'evoluzione tecnologica di cui questi film sono utili cartine di tornasole, la stessa differenza che c'è fra i ragazzi Shepherd (Kirsten Dunst e Bradley Pierce) e i quattro protagonisti di Welcome to the Jungle e The Next Level: la differenza, cioè, fra la scoperta di un'alterità che interrompe la vita di tutti i giorni entrandovi spettacolarmente in dicotomia, e un incontro meno conflittuale, anzi in fin dei conti produttivo e ristoratore, con il mondo (non più tanto) Altro in cui Jumanji ci catapulta; questo in conseguenza del diverso valore emotivo e narrativo che i film attribuiscono al tema del gioco, figlio a sua volta del salto concettuale da un'idea di cinema digitale come "illusione aumentata", ad una molto più in continuità con il mondo interconnesso di cui le immagini al computer sono già continuamente protagoniste; dal gioco-spettacolo che fa irrompere o ci catapulta nella meraviglia di un Altrove (1995) si passa al gioco-vita che interpella direttamente il nostro quotidiano e il nostro Io (2017-19).
È evidente infatti come il centro conflittuale che propelle le narrazioni di Welcome to the Jungle e seguito non sia più, passata in fretta la paura e capite al volo le regole, rappresentato dalla pericolosa avventura nella giungla; piuttosto, l'alterità, l'esotico e l'inesplorato sono rappresentati da corpi che non ci appartengono, e che mettono in crisi le nostre convinzioni su noi stessi: l'allampanato nerd Spencer (Alex Wolff) deve fare i conti col fisico scolpito e l'ancor più debordante vocazione eroica di Dwayne "The Rock" Johnson; la popolare Bethany (Madison Iseman) deve rinunciare alle dirette Instagram e abituarsi al corpo belushiano di Jack Black; l'intellettuale Martha (Morgan Turner) vestire i panni un po' troppo succinti della simil-Lara Croft interpretata da Karen Gillan, mentre l'imponente Anthony (Ser'Darius Blaine) si ritrova basso e petulante come Kevin Hart.
La misura del tempo passato emerge anche, e in modo forse più interessante, dal confronto con chi fra gli esponenti della "vecchia guardia" si è misurato di recente con tematiche simili. Pensiamo in primis a Steven Spielberg, il cui Ready Player One (2018) collocandosi a metà fra primo e secondo reboot, mette in scena un futuro completamente immerso tramite sofisticati visori in una variopinta e iperdinamica realtà virtuale, e dove la personalizzazione dell'avatar secondo le regole degli RPG consente di nascondersi in bella vista, proiettando un'immagine di sè che spesso non collima con la vera personalità del giocatore-utente. Pur molto più vicino ai nuovi Jumanji che non all'originale nella proposta narrativa, per la sensibilità che vi è profusa Ready Player One può dirsi un'opera di transizione fra queste due diverse epoche del sentire tecnologico, contemporanea nella forma e nella sbrigliata fantasia visiva, ma in parte ancora legata a una concezione "passata", distintamente novecentesca, del mondo che ipotizza.
"La ricerca disperata di calore, la solitudine straziante di A. I. che lasciava il piccolo androide spegnersi nell'assolutamente artificiale della "macchina dei sogni", erompe a piena potenza nell'incontro al di fuori del gioco (...) l'approdo è un ritorno alle radici, che nel caso di Ready Player One consiste nella fusione armonica dei due mondi, presi uno per uno così chiaramente insufficienti". Così nella mia recensione avevo descritto quella che mi sembrava l'ambivalenza dello sguardo spielberghiano; una visione accogliente e possibilista, certo, ma ancora profondamente dicotomica: c'è il Mondo Vero e c'è quello virtuale, e se il secondo può fare molto per noi, farci incontrare e vivere avventure mozzafiato, non bisogna mai scordarsi di vivere nel primo. Com'è comprensibile, ma ironicamente per chi insieme a Lucas fu il principale responsabile del balzo tecnologico occorso a Hollywood a cavallo fra anni '80 e '90, in Ready Player One questo eterno bambino di 72 anni si ritrova almeno in parte a vestire i panni del "boomer", suo malgrado e anzi, proprio mentre cerca in tutti i modi di mostrarsi al passo coi tempi; alla concezione organica e gioiosa del mondo virtuale è infatti continuamente sottesa una sua lettura come evasione dalla realtà, che - se può rimandare classicamente allo spettacolo cinematografico o alle accezioni percepite come "più innocenti" di quello videoludico, e allora è degna di essere celebrata in un'orgia di citazionismo nostalgico - pone però anche abbastanza quesiti inquietanti da rendere necessaria una descrizione di questo futuro prossimo in termini inequivocabilmente distopici.
Tutt'altro lo spirito del team capitanato da Jake Kasdan, a sua volta figlio di quell'epoca di avventure fra Giungla e Spazio (il padre Lawrence, grande regista in proprio, ha partecipato come sceneggiatore alle saghe di Star Wars e Indiana Jones). Rispetto alle dimensioni comunicanti ma distinte di Ready Player One, i suoi Jumanji si spostano un passo più in là, film non dell'armistizio, ma della compiuta fusione tra reale e virtuale, specchio della naturalezza con cui i nati nei 2000 vivono forme di socialità ancora "esotiche" per certi adulti. Non per niente, a differenza dei liceali protagonisti, nel primo film gli avatar sperduti to the Jungle hanno tutti dai 30 ai 50 anni, e nel finale un nativo analogico esce dal gioco con un rinnovato senso di complicità nei confronti dei compagni più giovani, dopo essere stato per un delizioso paradosso il più giovane e insicuro del gruppo all'interno del viaggio videoludico. Ancor più ovvio il caso di The Next Level, dove mezz'ora abbondante è dedicata agli esilaranti tentativi di due over 70 (Danny De Vito e Danny Glover) di comprendere le dinamiche videoludiche, e che si conclude con una simile riconciliazione: nonno e nipote seduti insieme davanti alla schermata di un videogame.
Nel mondo virtuale della bilogia le sfigate prendono aggressivamente possesso della propria sessualità, i deboli si scoprono forti, e la queerness invade ogni spazio a disposizione, fra un The Rock/Wolff in contemplazione dei propri/altrui bicipiti, e Bethany/Jack Black in erezione alla vista di Alex/Nick Jonas. "Sono ancora nero?" chiede Kevin Hart all'inizio di ogni viaggio, aggiungendo all'elenco dei dissacrati anche le trappole dell'identità razziale. Non è certo il luogo finzionale-disfunzionale di Spielberg, dove ci si nasconde dietro un look personalizzato ad hoc; ma non è neanche (come altrettanto dicotomicamente verrebbe facile pensare) quello “che fa cadere le maschere”: piuttosto la sottile via di mezzo di una roboante fucina di identità, vera e propria soul kitchen capace di rimescolare gli stereotipi sociali offrendo preziose chance di ridefinizione del sè. Lasciati alle spalle cammello e leone (ma anche struzzi, rinoceronti, ippopotami, scorpioni e black mamba) l'identità contemporanea si scopre bambina, mutando allegramente skin per reinventare se stessa.