di Luigi Ercolani
“Morte e vita si sono affrontate/In un prodigioso duello”. Questo brano è tratto dalla Sequenza che i cattolici recitano alla funzione di Pasqua, ed è rappresentativo di quei poli opposti che inevitabilmente caratterizzano il percorso di ciascuno: vita e morte, positivo e negativo, esistere e non esistere. L'essere umano si interroga sulla caducità della vita umana dall'alba dei tempi, e per esso il rapporto tra vita e morte rimane ancora oggi un problema filosofico irrisolto, e irrisolvibile.
In questo senso, Paolo Genovese è un regista che ha dimostrato, sia in Perfetti sconosciuti che in The Place, di provare piacere nel muoversi sul filo della questione esistenzialista, analizzando le grandi domande della vita (Chi sono io? Perché sono qui? Cosa devo fare?) attraverso gli aspetti più quotidiani, talvolta drammatici, di quest'ultima. Con Il primo giorno della mia vita l'autore compie tuttavia un passo ulteriore: partito dalla realtà concreta nel primo film, si è poi spostato su un piano surreale nel secondo per poi avventurarsi, in questa terza opera, nel campo della metafisica.
Un'operazione meno agevole di quello che sembra, visto che il cinema occidentale odierno sembra essersi appiattito su tematiche qui-e-ora, pur trattate anche attraverso metafore ricche d'azione e fantascienza, come succede ad esempio nella produzione blockbuster statunitense. Genovese, invece, scava più a fondo, e anzi, si colloca a metà tra la vita e la morte, in un limbo senza tempo né spazio, il luogo ideale per indagare il fascinoso rapporto le due.
Lo fa, per giunta, prendendo spunto dal tema del suicidio, una questione che genera sempre dibattiti (anche aspri) tra chi perora la causa della sacralità della vita umana e chi quella, altrettanto valida, del libero arbitrio. Rispetto a tali prospettive il regista compie però un passo di lato: non condanna né giustifica, non rimprovera né approva, ma anzitutto si pone in ascolto di chi ha deciso di mettere fine alla propria esistenza.
Propone, questo sì, un'alternativa, un altro punto di vista, ma sempre lasciando ai potenziali suicidi la scelta ultima. Il primo giorno della mia vita ha in effetti l'indubbio merito di non sposare affatto, la summenzionata diatriba manichea fine a sé stessa ma, al contrario, di guardare dentro la persona che ha intenzione di compiere un suicidio, in un primo momento mostrando alla stessa quante prospettive di felicità siano dietro l'angolo, quanti affetti la circondino e siano pronti a soccorrerla, ma poi, alla fine, rimettendo tutto nelle mani dello stesso soggetto, artefice ultimo del proprio destino.
Così come finiscono per essere rimesse allo spettatore, a ben guardare, anche la riflessione su quello che ha visto, e la sua posizione in merito alle domande esistenziali, scuotendo quest'ultimo dal torpore della quotidianità per invitarlo ad immergersi nel potenzialmente infinito. È per tale motivo che chi ritiene che Genovese abbia approfondito poco tematiche attuali come il cyberbullismo o la depressione si può dire che abbia allo stesso tempo ragione e torto: ragione, perché è effettivamente vero che tali argomenti siano tangenziali; torto, perché il motivo per cui sono tangenziali è che sono propedeutici a una riflessione ben più complessa, antica quanto l'essere umano stesso.