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IL PRIMO RE


di Lorenzo Meloni

Quale tema migliore del nostro mito di fondazione per eccellenza, quello di Romolo e Remo, per un film che nei piani dei produttori deve costituire una cesura, un piccolo passo per un piccolo cinema un tempo grandissimo e poi progressivamente decaduto, che negli ultimi anni - proprio come le braci di un incendio estinto verso la fine del film - ha dato promettenti segni di poter ancora avvampare? Due registi, soprattutto, hanno riacceso la speranza: Gabriele Mainetti con Lo chiamavano Jeeg Robot e, con Veloce come il vento, Matteo Rovere. Proprio a Rovere spetta oggi l'onore/onere di un'impresa in Italia non più tentata da anni.

Discutibili tanto per cambiare le scelte distributive sul territorio nazionale: non si porta al pubblico un film crudo e feroce senza limiti di età, non si elide dalla campagna promozionale un "dettaglio" come il proto-latino filologicamente ricostruito e sottotitolato in cui è parlato, aggiungendo alla difficoltà che gli Italiani naturalmente incontrano per disabitudine ai sottotitoli il surplus di una brutta sorpresa, e che invece a valorizzarlo come si fece per l'Aramaico e il Maya in La passione di Cristo e Apocalypto di Mel Gibson (due dei modelli dichiarati) poteva eccome aumentarne appeal e prestigio.

Ma Il primo Re potrebbe non averne bisogno, perchè punta anche e soprattutto all'estero, e piaccia o non piaccia riesce a tener fede alla proprie ambizioni di spettacolo internazionale. Qui anche il nodo linguistico viene al pettine a suo favore, creando un'aura di esotismo, professionalità, trans-nazionalità (quante lingue occidentali hanno il latino nel proprio dna?) di cui abbiamo ormai da anni un disperato bisogno.

E che non è l'unica freccia al suo arco. I valori produttivi di quello che con i suoi 9 milioni di budget è - per gli standard italiani recenti - un kolossal, sono, per dirla all'americana, state of the art. Il direttore della fotografia Daniele Ciprì, che con la sua tavolozza nero fumo e un uso virtuosistico del piano-sequenza fu responsabile della riuscita del noir Salvo (2013) ben più dei registi Grassadonia e Piazza, non sfigura accanto a colleghi d'oltreoceano con mezzi decine o in certi casi centinaia di volte più ricchi, mentre l'effettistica gore riporta alla mente i fasti di maestri come Sergio Stivaletti e Giannetto De Rossi per i film rispettivamente di Dario Argento e Lucio Fulci.

Ci sono poi meriti che potremmo o meno considerare tecnici, quali ad esempio un approccio strettamente fisico ed antiteatrale alla recitazione, con il vero e proprio "imbestiamento" di formidabili caratteristi nostrani, la tensione nella postura, le parole sputate o sibilate, le smorfie che rafforzano l'ottimo lavoro di makeup; o il gusto scenografico che importa il fantasy anglosassone per render conto di un mondo, quello narrato, tanto nostro quanto inimmaginabilmente cupo e violento, fatto di lotte, tregue, esistenze precarie.

Tutte cose a cui contribuimmo in modo sostanziale (es: Fulci influenza Sam Raimi che influenza Peter Jackson per la sua ormai classica Trilogia dell'Anello), ma di cui sembravamo esserci scordati. Rovere sembra essersi imposto di ricordarcele tutte insieme, o più semplicemente, per dirla con le sue parole, di restituirci la soddisfazione di giocare in Serie A, unendoci a Inglesi, Spagnoli e Francesi che già da anni, con duro lavoro ed astuzia produttiva, si sono guadagnati un posto fra i colossi americani e quelli orientali nell'affascinante "corsa" al cinema epico, avventuroso, storico e fantastico.

Soddisfazione duplice, perchè sgorga da due fonti: uno, l'umiltà, la passione, la cinefilia non solo filologica/hipster ma giustamente vorace ed emulatrice del regista nell'appellare, come divinità arcaiche, i modelli nobili di questi generi via via che si pongono difficoltà espressive, tecniche, linguistiche. Abbiamo detto dell'epos apocalittico di Gibson; della topografia ambientale e corporale in Jackson, cui va aggiunta la capacità di filmare "Compagnie" disponendo ed equipaggiandone i componenti secondo precise logiche di comunicazione cinematografica; molti citano Valhalla Rising e The Revenant. Noi aggiungiamo gli stalli alla messicana in giungle o paludi di Predator e I guerrieri della palude silenziosa; un pizzico di Game of Thrones, oggi ineludibile per chiunque. E potremmo continuare a lungo.

Da una parte quindi rivisitare un cinema nostro (si pensi anche al filone peplum) in versione 2.0. Dall'altra quello con cui abbiamo aperto, non meno essenziale alla credibilità dell'operazione: battere la strada del culturalmente "nostro" per eccellenza in modo non scolastico, scoprendovi nuove diramazioni, riaprire una sorgente seccata da tempo (così il Tevere che rompe gli argini nella prima e migliore sequenza si carica di senso ulteriore); parlare, si, dell'Italia di oggi e di sempre, religiosa e scettica, convulsa e frammentata. Ma parlarne al mondo e nel mondo, per grazia di un linguaggio universale come il cinema, in modo finalmente fresco e credibile.



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