Luigi Ercolani
All'inizio del secondo lungometraggio del regista reggiano Marco Righi, campeggia una citazione dell'abate Amédée Ayfre: “Niente somiglia di più ad un vero santo di un falso santo”. Purtroppo non abbiamo contezza della cornice interpretativa in cui il monaco, che in vita ebbe modo di dedicarsi anche al rapporto tra spiritualità ed immagine, pronunciò la frase, ma una domanda, di fronte a tale paradossale assunto, sorge spontanea: è possibile l'esistenza di una santità falsa?
Chiaro, se uno guarda al Vangelo, l'essere umano è stato messo in guardia da Cristo stesso in merito all'arrivo di falsi profeti e salvatori, per la precisione quando dice “Guardate che nessuno vi inganni: molti verranno nel mio nome (...)” (Mt 24,5a). Tuttavia, espunti dal computo tutti costoro e rimanendo in un'ottica di buona fede (in più sensi), è spontaneo chiedersi se quella alla santità debba essere recepita come una chiamata esclusiva o se da essa possano viceversa sentirsi coinvolti tutti gli esseri umani.
La risposta che la Chiesa offre, in particolare nella sua declinazione postconciliare, ricade senza alcun dubbio nel secondo caso, non tanto per una questione di procedimenti di canonizzazione, quanto piuttosto per l'invito a mettersi in ascolto e a rispondere positivamente ad una possibile vocazione in termini di servizio al prossimo, ispirato allo spirito evangelico. Partendo da tale presupposto, è indubbio che Antimo, protagonista di Il vento soffia dove vuole, ad una prima impressione, soddisfi pienamente tale concezione.
Il ragazzo si distingue in effetti per la sua devozione, che risulta ancora più marcata se inserita nel contesto della piccola comunità dell'Appenino reggiano in cui il giovane risiede. Quest'ultima è per giunta basata su giorni cadenzati dalla ripetizione metodica dei compiti quotidiani legati all'attività agricola, quasi a costituire un rito quotidiano materiale che si affianca a quello spirituale, intrecciandosi con esso.
Antimo, tuttavia, è un ragazzo altresì tormentato tanto dalla prematura perdita della madre quanto nei rapporti con chi gli è vicino, nello specifico il padre, la sorella e la sua ragazza. Proprio questo tormento interiore, nel corso della narrazione, lo porta a vivere tale vocazione in maniera eccessivamente radicale, fino a che, pur se in buona in fede, in lui si sfocano i confini tra ciò che è giusto e legittimo che lui faccia e ciò che è, invece, appannaggio di altri.
In questo senso, il regista Marco Righi sembra offrire proprio una riflessione su una fede i cui rami si spingono molto in alto, ma le cui radici non sono altrettanto solide. Il rischio di questa incresciosa situazione, come ricorda la parabola del seminatore del Vangelo di Marco (4,1-20), è che, non trovando la fede il giusto nutrimento, l'iniziale fervore dato dall'entusiasmo sia di corto respiro, e che di fronte a una difficoltà la chiamata perda la retta via, disperdendosi.
Pur se sincero e onesto nella sua fede ma non bilanciando quest'ultima con un approccio razionale, dunque, Antimo incappa ingenuamente in quell'errore che nella cultura ellenistica era conosciuto come “hybris”, ovvero la sfida al senso della misura, al “Nulla di troppo”. Tale errore è sufficiente a farne un falso santo? No, ma allo stesso tempo gli impedisce purtroppo di divenirne pienamente uno vero.