di Maria C. Fogliaro, 24 marzo 2017
Più di cento opere dell’artista statunitense in mostra a Palazzo Reale a Milano fino al 18 giugno
«L’esperienza umana è fondamentalmente irrazionale. Io penso che l’artista contemporaneo abbia una responsabilità verso l’umanità: deve opporsi alla disumanizzazione della nostra cultura». È questa − spiega Keith Haring (1958-1990) nei suoi Diari − la missione autentica dell’artista nell’epoca delle grandi trasformazioni tecnologiche e dell’ascesa del neoliberismo, della quale il poliedrico pittore statunitense coglie con grande lucidità il potere metamorfico e il pericolo potenziale per l’uomo. Ed è da questa visione che prende le mosse Keith Haring. About Art, la mostra curata da Gianni Mercurio e visitabile a Palazzo Reale a Milano fino al 18 giugno 2017.
Famoso come uno degli artisti-simbolo della controcultura degli anni Ottanta, impegnato nei movimenti libertari contro il razzismo, la povertà, l’Aids e i diritti degli omosessuali, Keith Haring volle, soprattutto, riaffermare con la propria opera la centralità dell’uomo in un mondo soggetto a continui e repentini sconvolgimenti, facendosi promotore di una visione antropocentrica di cui il pittogramma antropomorfo − l’omino senza volto, simbolo dell’individuo e, insieme, dell’intera umanità − è l’immagine più popolare.
L’aspirazione di Haring a un linguaggio universale, capace di parlare a tutti gli esseri umani, è messa in evidenza fin dall’inizio del percorso espositivo, dove nella stessa sala si possono vedere Untitled (1981), il grande dipinto su telone vinilico, che raffigura l’omino con le braccia alzate e con il buco nella pancia − che fu ispirato ad Haring dalla notizia dell’assassinio di John Lennon −, e una copia stampata dell’Uomo vitruviano di Leonardo. O anche in Untitled (1984), dove il busto e la testa dell’omino sono trafitti dalle sue stesse braccia, che si allungano per collegare simbolicamente mente e cuore, e per affermare che «il puro intelletto senza sentimenti è inutile e addirittura potenzialmente pericoloso (per esempio il computer nelle mani di coloro che vogliono esercitare il controllo sull’umanità)».
Ripercorrere la breve ma feconda vicenda artistica di Haring, alla ricerca dei linguaggi che lo hanno ispirato, è lo scopo della mostra. Attraverso sette diverse sezioni, si esplora il rapporto che la produzione del pittore e scultore nato a Reading (Pennsylvania), ma esploso professionalmente a New York, ha con il mondo antico − con i miti, gli archetipi, le icone della cultura greco-romana −; con le grandi civiltà egizia e mesopotamica; con la religione cristiana, e con la figura di Cristo, in particolare; con l’immaginario fantastico medievale; con l’etnografia; con il totemismo e le culture precolombiane; e, soprattutto, con le avanguardie e i grandi artisti del Novecento (Picasso e Andy Warhol su tutti), e con lo schema narrativo del fumetto − sull’esempio di Alechinsky −: tutte esperienze studiate a lungo, metabolizzate e rielaborate per parlare al proprio tempo. Come ci mostrano i numerosi accostamenti analogici fra alcuni lavori di Haring e selezionate opere del passato: ad esempio una copia della Lupa capitolina; un calco della Colonna Traiana; il calco originale di fine XIX secolo della Battaglia tra Centauri e Lapiti di Michelangelo; un raffronto con una riproduzione digitale del Giardino delle delizie di Hieronymus Bosch; fino a quadri di Picasso, Dubuffet, Klee e Pollock.
L’esposizione di Palazzo Reale, forse la più ricca e completa fra quelle finora realizzate in Italia, racconta di un uomo impegnato nelle battaglie del proprio tempo; di una mente eclettica capace di coniugare «cultura alta» e «cultura bassa», pop art e arte concettuale. Ma soprattutto parla di un’esistenza vissuta con intensità dionisiaca, di un artista complesso che − attraverso il Radiant Child, il Cinocefalo, e le altre immagini nate dalla sua fervida creatività − si è spinto a esplorare, con leggerezza e sensibilità, quell’enigma incommensurabile che è la vita nel suo fluire. Lo si percepisce chiaramente nelle sue commoventi ultime opere: Walking in the Rain (1989), realizzata subito dopo la scoperta di aver contratto l’Aids, che rappresenta un’arpia, qui posta a simbolo della distruzione delle giovani vite; e Altarpiece (1990), una pala d’altare in bronzo ricoperta da foglia d’oro bianco, dalle linee perfette incise nella creta, ispirata alla vita di Cristo, l’ultima opera di Haring, di fronte alla quale, dopo averla terminata con uno sforzo estremo (a causa della malattia che se lo porterà via a soli trentun anni), egli esclamò: «Diavolo, questa sì che è roba forte».