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L'8 Mile che ci separa da "8 Mile"


di Lorenzo Meloni


Il motivo per cui 8 Mile (2002) è riuscito a rimanere nella memoria di tanti si trova attestato in tutte le recensioni dell’epoca. Tutte infatti alludono alternativamente alle buone doti d’attore di Marshall Bruce Mathers III – in arte Eminem – o alla capacità da parte del regista Curtis Hanson (L. A. Confidential) di valorizzarlo come tale. Colgono per così dire l’ovvio, dato che non è un mistero per nessuno che il film fosse inteso soprattutto come veicolo commerciale per il rapper. Ma per ovvio che sia, sottolineare che “tutte le strade portano a lui” è essenziale per collocare il film nel proprio contesto retorico.

8 Mile può essere considerato due cose, e deve esserlo, contemporaneamente: “musicalmente”, o comunque per quanto concerne il percorso dell’artista che lo ha ispirato interpretato e concepito, si pone in linea perfetta col percorso di autonarrazione da lui già avviato in carriera, di cui integra tutti gli elementi fondanti (la storia dell’underdog di periferia come in un Rocky più white trash, la retorica familiarista con la sorellina al posto della figlia più volte raccontata nelle canzoni, la trappola “alla Elvis” dell’essere bianchi di successo in un’arte appannaggio dei neri). Cinematograficamente è invece un caso flagrante di film cucito su misura per un’icona già pronta al grande schermo, dotata di tutte le caratteristiche fisiognomiche, sartoriali e gestuali necessarie non a recitare, ma a interpretare se stessa.

L’autoreferenzialità che ne deriva può risultare soffocante per chi non è abituato alle regole del gioco: Eminem è incriticabile e sempre a favor di camera, ha l’ultima e più saggia parola contro tutti (gli amici e soprattutto le donne, fidanzate e madre) e se è per una giusta causa possiamo scordarci del suo fisico minuto e credere che possa picchiare un uomo imponente come Michael Shannon; il tutto in una Detroit livida fino alla caricatura, campione del malumore americano post -09/11 che portò, assieme ai tanti capolavori della riscossa e della meditazione, tutto un modo grigio ed estetico di piangersi addosso.

Ma si riconosce un cuore di verità in tutto questo allestimento, per un paradosso rap ereditato dal cinema. C’è finzione, ma non diversa da quella che Mathers e ragazzi “a nocche dure” come lui opponevano al mondo, finzione che rielabora sé stessi, che non crea ex nihilo ma lavora sulla realtà – specie su quella peggiore. Nella sequenza finale 8 Mile dimostra il teorema della propria retorica e di quella del protagonista. Rabbit/Eminem non aspetta che il suo rivale di rap battle Papa Doc attacchi i suoi limiti e punti deboli: glieli vomita tutti adosso lui, prima che possa farlo l’altro: una presa di possesso sulla propria identità capace di trasformare il piombo in oro. È tutto vero, ma ve lo racconto io. C’è grande fascino in questo, un fascino che ormai ha il sapore della storia: oggi va la perfezione, si è di dominio pubblico e i difetti si nascondono, oppure (che è il versante positivo) si lavora perché non possano imputarceli.

Ragione o torto, un film di neanche vent’anni fa sembra già lontanissimo. Ci guarda torvo, pugni chusi e cappuccio alzato, dall’altra parte dell’8 Mile.





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