di Luigi Ercolani
Le recenti vicende di attualità hanno riportato al centro del dibattito pubblico la spinosa questione relativa all'immigrazione dall'Africa verso i paesi europei. Vista la sua collocazione geografica, l'Italia è stata allo stesso tempo soggetto ed oggetto del dibattito pubblico, che si è polarizzato in maniera fin troppo aggressiva, senza però arrivare ad una seria definizione di soluzioni accettabili per tutti, né tanto meno toccare le questioni morali che tale problematica porta con sé.
In questo senso, il centro nevralgico del dramma è sicuramente la Libia, in quanto primario punto di partenza alla volta delle coste europee. Dopo la primavera araba del 2011 e la conseguente caduta del colonnello Gheddafi, il paese è sostanzialmente diviso in due: da una parte una maggioranza controllata dal generale Haftar che fa riferimento alla città di Bengasi, ed un minoranza a Tripoli e dintorni, che invece rappresenta l'organo riconosciuto dalla comunità occidentale.
Il documentario L'urlo di Michelangelo Severgnini si inserisce proprio in un contesto tanto fratturato, andando sia ad evidenziare lacune presenti nel territorio sia, soprattutto, a mettere in luce aspetti per nulla tranquillizzanti in merito all'operato della parte più prospera del mondo, i quali si vanno poi a intrecciare con quelli delle varie organizzazioni di criminalità organizzata operanti nel continente africano. Il regista sottolinea in maniera inequivocabile come ci siano anzitutto pesanti interessi economici, che finiscono per instaurare dinamiche perverse in cui il problema non si risolve perché, sic et simpliciter, qualcuno ne ricava un tornaconto personale e dunque non ha la benché minima intenzione di risolverlo.
Con l'ausilio di testimonianze di attivisti locali ciò che emerge in maniera netta, senza sconti, dal documentario è che i profitti che questo traffico genera sono guadagnati sulla pelle di esseri umani che per inseguire il legittimo sogno di una vita migliore si mettono in mano a bande criminali, le quali tramite ricatti e violenze li riducono in una condizione di soggiogamento del tutto sovrapponibile all'antica schiavitù. Le tragedie che sono apparse e continuano ad apparire sugli schermi dei telegiornali nostrani sono quindi solo la punta dell'iceberg di un sistema di fatto ben più ampio ed intricato.
Nel quadro che Severgnini definisce appare dunque chiaro che l'unico viatico per evitare tragedie come quelle avvenute recentemente sia risalire alla fonte, snidando le associazioni a delinquere che hanno come unico scopo quello di lucrare su persone le quali, ridotte in condizioni davvero miserevoli, si vedono illegittimamente private di qualsiasi dignità che sia invece propria dell'essere umano. Ciò presuppone tuttavia che anche i governi occidentali, non marginali rispetto a tali operazioni, rinuncino ai vantaggi per promuovere invece una visione pienamente rispettosa del prossimo, specie se quest'ultimo proviene da una parte tanto sventurata del mondo, e dei suoi conseguenti diritti umani.
La salvaguardia di questi ultimi non deve perciò rimanere una massa informe di buoni propositi che può non concretizzarsi se la convenienza lo sconsiglia, in quanto tali prerogative sono intrinseche dell'essere umano a prescindere dalle condizioni. Quello di Severgnini è quindi un urlo in duplice chiave: come grido di dolore dei sofferenti provenienti dal Sud del mondo, e come richiamo alle autorità, affinché siano orientate a promuovere lo sviluppo integrale di ogni persona umana.