di Lorenzo Meloni
Straniante. Pruriginoso. Ironico, di uno humour sempre molto molto black. Tutti aggettivi che ben qualificano il cinema di Yorgos Lanthimos, ateniese classe '73 venuto alla ribalta nel 2009 (almeno per gli addetti ai lavori) con l'agghiacciante spaccato familiare di Dogtooth e poi di lì evolutosi in perizia e forza espressiva fino a diventare nel giro di pochi anni uno dei più acclamati giovani autori europei. E se europea è per eccellenza la sua mistura iniziale, satira surrealista da camera che rimanda al Buñuel de L'Angelo sterminatore e Il fascino discreto della borghesia con forse una freddezza più hanekiana, da The Lobster (2015) in poi è apparso chiaro come la strada intrapresa dal greco porti, se non proprio a Hollywood, a una ben più internazionale ed accessibile idea di arthouse.
Si guardi ad esempio all'uso, ormai per la terza volta, della lingua inglese. In questo senso The Favourite è un colpo da maestro per come Lanthimos - anzichè emigrare oltreoceano con le lusinghe e i rischi che comporterebbe - solletica le papille gustative americane (10 nomination agli Oscar) senza cedere culturalmente neppure un metro. "Serve l'inglese?" sembra si sia chiesto; "bene, faremo un film britannico". A partire dalla grafia del titolo: "Favourite" è una di quelle parole da !!Attenzione!! sui libri delle superiori, in cui su carta british e american english differiscono. È noto che l'America delira da sempre per l'accento dell'ex-madrepatria, ed ecco un monumentale cast all-british (tolta Emma Stone - nativa dell'Arizona - davanti al cui camaleontismo bisogna a questo punto levarsi il cappello) trainare questo film in costume come non si vedeva fare dai tempi di Le relazioni pericolose, con in testa un'Olivia Colman giustamente premiata a Venezia e...favorita alla prossima edizione degli Academy Awards.
La Colman è la regina Anne Morley nell'Inghilterra del 1708 in guerra coi Francesi. Gottosa, bambina, umorale, manipolabile. La Stone un'esponente decaduta della piccola nobiltà inglese che giunge a Palazzo sporca del fango dei sentieri, e che da ultima delle sguattere riesce coi modi untuosi e le lusinghe a entrare sempre più nelle grazie della sovrana. Ma dovrà fare i conti con la sua "favorita" (Rachel Weisz), gran consigliera e stratega militare, cortigiana e scacchista politica, rispettata da tutti, amata - anche carnalmente - cercata e temuta da Sua Maestà.
È il sigillo di Lanthimos al successo oltreoceano del suo period drama. Un delizioso gioco al massacro, in fondo e malgrado le finezze, in stile Game of Thrones, che in quei lidi intimoriti da Shakespeare e morbosamente attratti dalla Guerra delle Due Rose fa breccia con sfarzo, scandalo e tonnellate di cinismo witty. Poi, in tempi di #metoo, il totale protagonismo femminile che l'ha trovato in buona compagnia alla scorsa edizione della Mostra del Cinema di Venezia: per una donna debole e instabile (ma di grande spessore psicologico) due contendenti astute, caute, orgogliose, moderne che monopolizzano completamente il film lasciando ai maschi appena le briciole - unica eccezione il damerino del miglior Nicholas Howlth di sempre, pur sempre marginale ma con che classe...
Se nei primi, deliranti cinque minuti del suo Alps (2011) Lanthimos faceva dire a un personaggio "non è ancora tempo per il pop", qualche anno dopo quel tempo sembra proprio arrivato. La sceneggiatura - non sua (è di Deborah Davies e Tony McNamara, che redasse il primo trattamento già nel 1998) e di gran lunga superiore alle capacità finora dimostrate in questo campo dal regista - è ben oliata, lieve e velenosa, abbastanza chiusa in termini di ambienti e rituali da consentirgli di far eco con un'astuta formularità registica di minuscole variazioni su temi noti, la cui ormai quasi-kubrickiana solidità, anzichè repellere lo spettatore, collabora con lo sfarzo scenografico e fotografico, la recitazione affilatissima e la martellante colonna sonora nell'irretirlo. Straniante, pruriginoso, ironico. Ma...divertente? Non ci credevamo finchè non l'abbiamo visto.
Se La favorita dovesse sembrare un film vuoto ed ipercostruito, con al massimo un aggiornamento al femminile (peraltro non certo nuovo) dell'immortale tema della lotta fra morale e immoralità al potere, il suggerimento è di chiedersi perchè, fra le due straordinarie litiganti Stone e Weisz che di fatto fanno il film, a colpire di più critica e pubblico sia stata la Colman. Di chiedersi quindi per chi lo fanno, questo film così pop. Le attrici, ovviamente, per lo spettatore. I personaggi per Anne/Colman, che è tutte quelle cose che elencavamo sopra e che finisce per essere il vero fulcro della storia. L'impressione è che Lanthimos, sempre intento a legare assieme i temi del potere, dell'educazione, della sottomissione e del condizionamento, stavolta li cerchi oltre lo schermo, direttamente nell'esperienza spettatoriale col suo confuso e schizofrenico mix di crudeltà e tenerezza, dolore ed euforia. La Colman incarna tutto questo con una franchezza che ne fa l'unico personaggio imprendibile, l'unico misterioso, paradossalmente perchè non onnisciente, non sovrumano, non cristallino - dove si pongano le altre due in termini morali e politici è chiaro fin dai primi minuti. Ma chi siamo, e cosa "preferiamo", noi?