di Luigi Ercolani
“Il più formidabile nemico dei finlandesi è la malinconia, l'introversione, una sconfinata apatia. Un senso di gravezza aleggia su questo popolo sfortunato, tenendolo da migliaia di anni sotto il suo gioco, tingendone lo spirito di cupa seriosità. Il peso dell'afflizione è tale da indurre parecchi finlandesi a vedere nella morte l'unico sollievo”. Parole di Arto Paasilinna, scrittore e giornalista nato in Lapponia, e prematuramente scomparso nel 2018.
Una considerazione certamente senza sconti, ma che risulta tremendamente verosimile allorché ci si approccia a La morte è un problema dei vivi. Il lungometraggio in questione, infatti, riecheggia alla perfezione lo stato d'animo descritto dal letterato finlandese, e lo fa tanto nella definizione dell'interrelazione tra le persone quanto, soprattutto, nell'affrontare il tema della morte come liberazione dai problemi della quotidianità.
Teemu Nikki, peraltro, non è nuovo allo sviluppo di tale tematica. Se infatti ai suoi esordi troviamo il film Lovemilla (2015) tratto dall'omonima webserie che lo stesso regista aveva creato nel 2013, la prima opera arrivata nei mercati internazionali è Euthanizer (2017), che tratta di uomo che pone fine alla vita degli animali in cambio di un compenso meno caro rispetto a quello delle normali cliniche veterinarie.
Anche in Il cieco che non voleva vedere il Titanic (2021) il tema della morte aveva fatto capolino, nella fattispecie in relazione alla condizione fisica di entrambi protagonisti. È tuttavia solo in La morte è un problema dei vivi che Nikki prende di petto la questione, facendo inizialmente finta di dipingere un affresco a sfondi dark comedy per poi, invece, proiettarsi piano piano verso il dramma vero e proprio.
Quella descritta dal regista è infatti una realtà non solo cupa ed introversa, apatica ed afflitta, secondo le illuminanti parole di Paasilinna. L'autore finlandese parte da tutti questi elementi, sicuramente presenti, ma li amalgama con una declinazione dei difetti umani in chiave bieca e sclerotizzata che non può che portare, nel lungo periodo, a risvolti tragici.
La morte è dunque un problema dei vivi non tanto nell'elaborazione personale del lutto, ma anche e soprattutto come via di fuga per risolvere le piccole e grandi sconfitte della vita quotidiana. L'inserimento del disagio della ludopatia di uno dei protagonisti e di quello dell'altro personaggio principale si configurano in termini di strumenti per mettere in evidenza come i drammi umani avvengano ovunque non ci sia disponibilità al perdono, alla riconciliazione, alla comprensione, alla pietà, al sostegno reciproco: in una parola, all'altruismo.
Per essere ancora più efficace, Nikki utilizza inoltre un linguaggio cinematografico crudo, fatto di immagini esplicite, talvolta violente, e tensione continua, accompagnate da relazioni tra i personaggi che sono largamente all'insegna del cinismo e dell'individualismo. Il peso dell'afflizione di cui parlava Paasilinna diventa qui non solo afflizione di un individuo verso sé stesso ma, se l'occasione è propizia, anche verso il prossimo.
Ma il solipsismo sfrenato e la mancanza di fiducia in sé o nell'altro, sembra quasi dire il regista, ha come inevitabile esito l'autodistruzione. L'unico rimedio a quest'ultima appare, a conti fatti, la capacità di tendere una mano verso il prossimo per impedirgli di inabissarsi.