di Luigi Ercolani
“Ma il Signore gli disse: «Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!». Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato” (Gen 4, 15). Questo passo biblico non è solo un'ispirazione per quanti si oppongono alla pena di morte, ma diventa anche un monito a seguire una logica più alta, più misericordiosa, rispetto a quella meramente umana basata sulla legge del taglione, sul restituire a qualcuno quanto ha fatto.
Vito Palmieri, al suo terzo lungometraggio dopo See you in Texas (2016) e Il giorno più bello (2016), coglie in pieno lo spirito di questa logica di misericordia. Il regista pugliese, infatti, cesella infatti meticolosamente il quadro drammatico in cui si trova qualcuno che, dopo aver scontato la pena per una colpa commessa, deve ricominciare tutto da capo, ma con in più il fardello di essere, agli occhi altrui, una pecora nera.
Le difficoltà personali finiscono in questo senso per sommarsi, fino ad affastellarsi l'una sull'altra senza soluzione di continuità. Oltre al convivere della protagonista con il peccato commesso, si aggiungono infatti la sua necessità pratica del reinserimento, l'imbarazzo nel rapportarsi con le altre persone e la ritrosia di chi la squadra, la giudica o la condanna ulteriormente e senza appello per ciò di cui si è macchiata molto tempo prima.
Quest'ultima è una reazione dell'animo umano perfettamente comprensibile di fronte ad un fatto che va oltre il canone della quotidianità. Palmieri tuttavia pare invitare ad andare oltre l'istintivo shock iniziale, e ad abbracciare quella logica di perdono ed inclusione che l'essere umano ha sviluppato, ma che ha bisogno di uno sforzo per essere tirata fuori e messa in pratica, altrimenti finisce per rappresentare una teoria sì bella, ma tremendamente sterile, e di conseguenza superflua per i rapporti tra individui.
L'essere umano è infatti, come diceva Aristotele, un animale sociale, ed esprime la natura umana unicamente quando si pone in relazione con gli altri. Se però questi ultimi si ritraggono, si negano, chiudono porte, ecco che una persona si trova condannata in una sorta di non-vita, in una sorta di limbo.
Lo spettatore riesce ad entrare in empatia Anna, la protagonista di La seconda vita, proprio per questa sensazione di straniamento che la accompagna. Di fronte alla reazione intransigente di chi la circonda nella realtà narrativa, non si può infatti provare umana pietà verso qualcuno che, per quanti sforzi faccia per rimettersi in carreggiata, trova di fronte a sé sguardi di biasimo.
Ma se il summenzionato passo della Genesi insegna qualcosa, è proprio che è necessario, per non dire proprio urgente, andare oltre questo schema. Di fronte alla colpa, a maggior ragione se c'è stato un pentimento, risulta infatti cruciale che una persona superi il suo istinto e si apra alla comprensione, alla riconciliazione con qualcuno che, nella concezione di grande famiglia umana che non ha confini, rimane pur sempre un fratello.
Se ritrarsi di fronte alla colpa è una reazione umana, l'essere umano ha tuttavia il compito morale di non fermarsi a tale reazione, ma di superarla al fine di riaccogliere l'altro nell'ambito sociale. Solo la misericordia verso il prossimo, in fondo, può permette di toccare la vetta ontologica dell'essere umano tanto a chi la esprime quanto a chi la cerca.