di Luigi Ercolani
“Figlio d'arte”. Questa espressione pare nasca nell'ambito della Commedia dell'arte del XV°secolo, ma progressivamente è stata sdoganata dal linguaggio giornalistico andando a coprire gli ambiti più diversi, dal cinema alla televisione, dallo sport alla politica e così via.
Una formula linguistica come le altre, in apparenza, ma che in realtà presuppone un meccanismo bieco, quello dell'identificazione del percorso della figliolanza con quello del più conosciuto genitore. San Paolo, in questo senso, affermerebbe:“E siamo figli, siamo anche eredi” (Rm 8,17): ma questa eredità, se si tratta di cose umane, risulta di difficile gestione.
La vox populi, infatti, tenderà verosimilmente sempre a fare dei paragoni tra chi arriva prima e chi viene dopo. Quasi fisiologicamente, è verosimile che ad essere prediletti saranno sempre i predecessori, e che i successori saranno considerati, soprattutto all'inizio, degli individui che hanno avuto un percorso agevolato, raggiungendo traguardi che senza l'inclito cognome sarebbero stati loro preclusi.
Non che questo sia sempre falso, ad onor del vero. Bisogna però tenere presente che esistono anche coloro che invece davvero lavorato duramente, effettivamente affinando in maniera originale e continuativa un talento che permetta a questi figli d'arte di scrollarsi di dosso tale etichetta e di divenire, agli occhi del pubblico di riferimento, individui titolari di una propria identità riconosciuta.
Chiara Mastroianni sul set e Christophe Honoré dietro la macchina da presa, in Marcello mio, portano sullo schermo esattamente quanto trattato finora. L'attrice franco-italiana (o italo-francese, perché in fondo parla bene entrambe le lingue) si fa dunque emblema del senso di inadeguatezza, del peso talvolta oppressivo di radici importanti, degli occhi altrui che ti scrutano per le tue origini e non per quello che sei, ossia tutte dinamiche che accompagnano i figli d'arte e le aspettative che su di essi vengono poste.
Quasi in risposta ad input verosimilmente che deve aver incontrato sin dall'inizio della propria carriera, la figlia d'arte decide di non essere più tale, ma di assumere non solo le sembianze, ma anche l'identità del padre. Incarnando, ed anzi, proprio facendo rivivere il grande Marcello, Chiara sembra aver intenzione di rispondere a quegli occhi che nel tempo in lei hanno cercato il genitore attraverso la natura stessa del mestiere dell'attore: l'impersonificazione.
In un percorso inverso che solo un'arte performativa può concedere, la figlia diviene il padre sì come risposta quasi polemica, ma allo stesso tempo finendo per soddisfare chiunque, nell'anno del centenario della sua nascita di quest'ultimo, abbia bisogno di rivederlo o abbia desiderio di incontrarlo per la prima volta. Tale trasformazione, tuttavia, non può avvenire in una realtà in cui le regole del vivere sociale sono quelle canonicamente condivise.
Forse è per questo che Honoré, che oltre alla regia firma anche la sceneggiatura, sceglie di inserire tale narrazione in un contesto onirico, che si colloca a metà tra la commedia dell'assurdo e il realismo magico della tradizione letteraria sudamericana. Un'inversione temporale come questa è infatti unicamente possibile in una realtà in cui la quotidianità presenti elementi irrazionali socialmente accettabili e accettati, come ad esempio, appunto, un passato che sfoci direttamente nel presente.