di Lorenzo Meloni
Ultimamente ci eravamo occupati di Soul, nel bene e nel male il film Pixar più “contemporaneo” e culturalmente calato nell’oggi degli ultimi anni, forse di sempre, con la sua mistura affascinante ma in parte irrisolta di astrattismo cavandoliano e calore autunnale newyorkese, di film jazz e di omaggio alla grande cultura nera. Tempo di tornare indietro di qualche mese al precedente film della casa, anch’esso penalizzato dall’uscita in tempi di pandemia e forse ancor più contestato in termini di ricezione critica. Parliamo di Onward – oltre la magia.
“Tanto tempo fa il mondo era pieno..di meraviglia!” Un inizio da fiaba amara per il racconto del viaggio di due fratelli, Ian e Barley (in voce i beniamini Marvel Tom Holland e Chris Pratt), elfi dalla carnagione azzurra che abitano una metropoli moderna in tutto, dove la magia è un ricordo antico e le avventure dei grandi eroi come Manticora sopravvivono solo nei giochi di ruolo alla Dungeons and Dragons di qualche nostalgico. Ma per il suo compleanno Ian riceve un regalo di suo padre, morto prima della sua nascita: un bastone da incantatore con le istruzioni di un incantesimo che lo riporterà in vita per 24 ore, il tempo necessario a conoscere e salutare – stavolta a dovere – i suoi ragazzi. Non tutto va come sperato, e i due fratelli si mettono alla guida del minivan di Barley all’inseguimento di un’ultima speranza..
Se a Soul qualcuno ha rimproverato una tempestività forse un po’ troppo paraventa, di questo urban fantasy (se mai ce n’è stato uno!) popolato da creature ex-magiche che lavorano in fast food e accompagnano i fratelli a scuola in furgone, non sembra essere piaciuta l’aria troppo “normale”, da avventura Disney o forse Dreamworks. In modo diverso dal suo successore quindi anche Onward si è dovuto scontrare con la legacy, l’eredità del periodo d’oro Pixar, una stagione di creatività forse irripetibile ma che nondimeno da alcuni anni sta agendo come una specie di forza reazionaria, che porta molti a squalificare opere assolutamente valide come questa.
Tanto per cominciare – se Soul lascia con qualche dubbio in più – ci sembra innegabile la presenza in Onward della poetica pixariana, al crocevia fra road movie esistenziale (dopo almeno Nemo, Cars e Up), disponibilità a intrecciare racconto spensierato “per bambini” a momenti di genuino terrore e inquietudine come è proprio delle grandi narrazioni fiabesche (vedi la soluzione potenzialmente scioccante approntata per trasmettere la presenza-assenza paterna) e la capacità di elevare a mondo narrativo, nonché filtro del proprio sguardo sul Mondo vero e proprio e l’umanità che lo abita, un microuniverso affascinante che va ad aggiungersi alla lista di quelli esplorati in passato.
Stavolta si tratta del mondo dei nerd anni ‘90 e primi ‘2000, appassionati di fantasy e role game, che dal giocare con pedine di draghi e cavalieri si ritrovano in un’avventura che sembra a sua volta una partita con una posta in gioco emotiva ben più alta. Onward regala almeno due sequenze (la finale e quella del ponte invisibile) che si inseriscono di diritto nell’antologia dei più grandi momenti Pixar, ma soprattutto costruisce un senso di perdita che sa quasi di elegia western crepuscolare – con la meraviglia, indissolubilmente legata alla dimensione degli affetti familiari, al posto dell’idealismo della Frontiera. Come tutti i film della casa, racconta di persone intente a cercare il proprio posto nel mondo. Lo fa in modo commovente e convincente fino in fondo, e per questo pensiamo che meriti di essere difeso a spada tratta.