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"Padrenostro" a Venezia 77



di Lorenzo Meloni


I bambini ci guardano. Era vero negli anni ‘40, all’ultimo atto del Fascismo, era ancora vero nel 1976 quando il vicequestore Alfonso Noce scampò per miracolo al fuoco di mitra dei Nuclei Armati Proletari (morirono un terrorista e un agente della scorta). Oggi è suo figlio Claudio a raccontare quella storia. “Non un film sugli anni di piombo”: così qualcuno ha definito Padrenostro, con quella retorica insopportabile che vorrebbe chiudere l’arte in una campana di vetro (quante volte di Orizzonti di gloria, Apocalypse Now o La sottile linea rossa ci è toccato sentire “non un film sulla guerra, ma..”). A sviarli è lo sguardo intimo di Noce, che c’era, è per sempre coinvolto e naturalmente racconta dall’interno, pur finzionalizzandola, questa storia di tutti.


Il riferimento al Neorealismo, solo apparentemente in contrasto con un simile assunto “de-oggettivante”, ci sembra doveroso. Il motivo dello sguardo infantile viene da lì, metafora lisa ma ancora capace nelle mani giuste di raccontare scollamenti generazionali e tracciare bilanci storici amari, di quell’amarezza che produce lo sporcarsi di un’anima pura col sangue e il fango della strada. Il protagonista-alter ego Valerio sembra venire direttamente da quel cinema, biondo e angelico esploratore della catastrofe come l’Edmund di Germania anno zero (i continui riferimenti al rischio di cadere nel vuoto), capace come gli eroi bambini di De Sica di farsi giudizio vivente, corpo e volto delle contraddizioni in cui si avvita la storia italiana recente.

In ciò sta la freschezza dell’approccio di Noce, che guidato (lo ribadiamo) dal proprio vissuto si distacca dalle tipiche narrazioni della Notte della Repubblica, segnate dalla mentalità del complotto e dalla presenza-assenza inquietante del potere, per tracciare un ritratto meno occulto e più umano di quella parentesi disfunzionale del nostro rapporto con le istituzioni. Lo sguardo de-localizzato e pauroso dell’autorità c’è anche qui, insinuato dai plongèe alla Dogville delle prime sequenze, dal tema dell’amico immaginario in cui Valerio sublima il calore negatogli dal padre assente, dall’introduzione tutta in fuori campo di quest’ultimo (Pierfrancesco Favino, ormai in rotta per la stratosfera). Ma è bilanciato dal contro-sguardo infantile del protagonista, che reciprocamente interroga e giudica.


Due modalità, apparentemente inconciliabili, fra quelle con cui il cinema italiano si è rapportato alle tragedie storiche del paese, collassano l’una sull’altra. Degli anni delle stragi non si mostra il sangue sui marciapiedi né le stanze del potere (“the room where it happens” direbbe il Lin-Manuel Miranda di Hamilton) ma le increspature prodotte nell’animo di chi scruta e assorbe la realtà circostante. Se Edmund si perdeva fino a trovarsi omicida, anche lo sguardo di Valerio è spesso assimilato alle armi delle stragi: “spara!” gli dicono mettendogli in mano una cinepresa, gesto che salda definitivamente autobiografismo e presa di coscienza delle responsabilità storiche dei (nostri) padri. E se alla fine del tunnel c’è il sollievo di una riconciliazione un po’ troppo favolistica per evitarsi accuse di parzialità revisionista, a noi non sembra di poter dubitare della messa in discussione dell’eredità di quegli anni. Si vedano le parentesi picaresche in cui il protagonista cede al richiamo del Lucignolo interpretato da Francesco Gheghi, ragazzo di vita drammaticamente simile nell’aspetto all’Interlenghi di Sciuscià (altro testimone impotente di una “caduta”). La loro amarezza collodiana cambia di segno al fiabesco, che non consola più, ma al contrario denuncia il bisogno di riempire con la compagnia, con qualche palleggio a calcio, con visioni di strade vive e brulicanti animate da carillon – Roma o il Paese dei Balocchi? - la solitudine di una casa vuota.

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