di Luigi Ercolani
Sembra uno di quei classici casi di sprechi all'italiana di un florido periodo ormai dimenticato, o comunque un paradosso su cui anche oggi molti, a torto, metterebbero la firma: essere pagati per non lavorare. In realtà si tratta di un clamoroso caso di mobbing, come testimoniato anche dalle sentenze che, all'inizio del nuovo millennio, sancirono le condanne per i dirigenti e i risarcimenti per quelle che erano vere e proprie vittime.
Perché il lavoro non è unicamente portare a casa uno stipendio, ma anche riceverne una gratificazione personale, sentire che si sta fattivamente contribuendo ad offrire un servizio alla propria collettività di riferimento, sia essa il quartiere, la città, lo Stato o la comunità internazionale. Ed in Palazzina Laf, il film che racconta proprio questa drammatica vicenda di soppressione della soddisfazione personale nell'attività lavorativa, tale aspetto emerge in maniera preponderante.
A sdoppiarsi tra macchina da presa e set c'è Michele Riondino, che dimostra non solo di conoscere la materia, ma anzi, di esservi pienamente immerso. Tarantino e figlio di un ex-operaio dell'ILVA, infatti, l'attore e regista fuori dalla professione è altresì impegnato a livello civico, risultando tra i fondatori del comitato spontaneo e apolitico “Liberi e pensanti”, che parte proprio da molti dipendenti ed ex-dipendenti dell'acciaieria pugliese e si pone l'obiettivo di coniugare la tutela della salute e dell'ambiente con la piena occupazione.
Palazzina Laf si sviluppa proprio come espressione di questa summa di esperienze. Lungi dall'essere un pamphlet, ancorché fisiologicamente ci siano risvolti anche di carattere politico, l'esordio alla regia di Riondino è più un grido d'allarme che, però, durante la narrazione, assume non di rado i contorni del canto d'amore.
Non tanto per l'azienda, chiaramente, ma per quella classe operaia che frequentemente viene schiacciata dai grandi capitani d'industria, interessati solamente ad ingrossare il proprio portafoglio ed indifferenti alla sorte dei propri lavoratori, i quali sono invece percepiti come numeri facilmente sostituibili e non come persone con un'anima ed un contesto famigliare in cui sono inseriti. La noncuranza per le condizioni di lavoro degli operai è inoltre accompagnata tanto dall'ipocrisia dei dirigenti nel momento in cui avviene una tragedia quanto, soprattutto, dalla loro ferrea volontà di spezzare qualsiasi tentativo dal basso di migliorare la situazione, facendo dunque risaltare il cinismo avido e senza cuore di chi, per la propria comoda posizione apicale senza rischi concreti, si permette di guardare solo al proprio tornaconto.
Tale cinismo, però, può anche essere contagioso, risultando un'esca per quegli operai che sono invece più propensi a farsi abbindolare dai manager allo scopo di tradire i colleghi, ritenendo di poter ricavare per sé stessi un profitto. Riondino, però, in questo senso, non fa sconti: non c'è alcun profitto che si possa ottenere dallo schierarsi con i dirigenti, i quali alla fine resteranno sempre tali, mentre l'operaio senza coscienza di classe continuerà a condividere con i colleghi quelle condizioni che, senza la sua infedeltà, avrebbero anche potuto migliorare.
Palazzina Laf è dunque, prima di tutto, un racconto di forza collettiva che deve spingere compatta ed in un'unica direzione per ottenere dei risultati contro l'avidità di poche persone al comando. Senza di essa, è solo chi ha già potere ad essere favorito.