di Matteo Lolli
La giraffa sembra un meccanismo costruito mettendo insieme pezzi provenienti da macchine eterogenee, ma che pur tuttavia funziona perfettamente. Il signor Palomar, continuando a osservare le giraffe in corsa, si rende conto d’una complicata armonia che comanda quel trepestio disarmonico, d’una proporzione interna che lega tra loro le più vistose sproporzioni anatomiche, d’una grazia naturale che vien fuori da quelle movenze sgraziate.
[…] A questo punto la bambina del signor Palomar, che si è stancata da un pezzo di guardare le giraffe, lo trascina verso la grotta dei pinguini. Il signor Palomar, cui i pinguini dànno angoscia, la segue a malincuore, e si domanda il perché del suo interesse per le giraffe. Forse perché il mondo intorno a lui si muove in modo disarmonico ed egli spera sempre di scoprirvi un disegno, una costante. Forse perché lui stesso sente di procedere spinto da moti della mente non coordinati, che sembrano non aver niente a che fare l’uno con l’altro e che è sempre più difficile far quadrare in un qualsiasi modello d’armonia interiore.
Italo Calvino, di cui pochi giorni fa è ricorso il centenario dalla nascita, ha sempre mostrato una particolare propensione verso la narrativa breve ed il gioco combinatorio. Non stupisce quindi che Palomar, espressione della sua letteratura più matura in quanto ultimo libro di narrativa pubblicato in vita (nel 1983, due anni prima della morte improvvisa), metta insieme l’uno e l’altro elemento: ventisette testi brevi, autonomi tra loro e a metà strada tra descrizione minuziosa, pseudo-narrazione e riflessione speculativa, riempiono le pagine di un libro la cui struttura è concepita in termini quanto mai rigidi e precisi. Tre sono infatti le sezioni principali (Le vacanze di Palomar, Palomar in città e I silenzi di Palomar), tre i sottocapitoli di cui ogni sezione si compone, sempre tre infine i testi veri e propri che fanno parte di ogni sottocapitolo: ogni brano riempie quindi la specifica casella di uno schema la cui poca duttilità – ed è qui che emerge il genio creativo di Calvino – non funge da limite soffocante, ma al contrario da “trampolino di lancio” per un’opera che nel complesso risulta vertiginosa, caleidoscopica, originalissima. Il protagonista di tutte le ventisette micro-storie è un personaggio quanto mai “calviniano”: sia per la forte tipizzazione, la conduzione fin quasi all’estremo di certe caratteristiche comportamentali o modi di essere (un’esasperazione semi-irrealistica non troppo lontana da quella di altri celebri personaggi di Calvino, come Marcovaldo o il protagonista del Barone rampante), sia soprattutto perché è facile vedere nel signor Palomar una trasposizione comico-autobiografica della personalità del suo autore. Tanto i luoghi narrativi (come l’ambiente marittimo che fa da sfondo ai testi della sezione sulle vacanze di Palomar, che richiama la Pineta di Roccamare presso Castiglione della Pescaia dove Calvino aveva il suo buen retiro estivo) quanto i tratti caratteriali del protagonista (la laconicità e la riservatezza, lo scrupolo di precisione e la curiosità conoscitiva) rimandano in maniera evidente alla figura di Calvino stesso: questo innegabile sostrato autobiografico, unito al carattere involontariamente “testamentario” del libro come ultima opera pubblicata in vita dell’autore, trasforma le pagine di Palomar in un punto di osservazione privilegiato su tutta la produzione calviniana, un approdo ultimo – in sinergia con le postume Lezioni americane – per inquadrare compiutamente l’attività di uno scrittore versatile, complesso ed originale come pochissimi altri.
Ma di cosa parlano, in fin dei conti, le tante micro-storie di Palomar? Si potrebbe dire, quasi alla lettera, “di tutto e di niente”: il protagonista appunta la sua attenzione solo su aspetti minimi del proprio mondo quotidiano (un’onda, un prato, una coppia di tartarughe in amore, uno squarcio di luna visibile nel cielo pomeridiano, un geco attratto dalla luce sulla parete di vetro di una terrazza…), osservati con esagerato scrupolo di precisione non per un motivo particolare ma per il loro semplice presentarsi all’occasionalità dello sguardo; la genialità narrativa di Calvino consiste, a questo punto, nel servirsi di tali elementi minimi per imbastire concettose riflessioni che, pindaricamente, dalla materialità della vita quotidiana si elevano verso l’orizzonte dei massimi sistemi di pensiero e delle indagini sui significati profondi del vivere individuale. Solo un altro esempio (oltre a quello della citazione iniziale in alto) per chiarire questo importante meccanismo tipico di tutto il libro: ne Il prato infinito, brano della prima sezione Le vacanze di Palomar, il protagonista studia il modo migliore per trattare l’erba del suo giardino estivo ragionando sul fatto che «il prato è un insieme d’erbe che include un sottoinsieme d’erbe coltivate e un sottoinsieme d’erbe spontanee dette erbacce; un’intersezione dei due sottoinsiemi è costituita dalle erbe nate spontaneamente ma appartenenti alle specie coltivate e quindi indistinguibili da queste. I due sottoinsiemi a loro volta includono le varie specie, ognuna delle quali è un sottoinsieme […]»; l’approdo finale di un simile ragionamento è questo: «Palomar s’è distratto, non strappa più le erbacce, non pensa più al prato: pensa all’universo. Sta provando ad applicare all’universo tutto quello che ha pensato del prato. L’universo come cosmo regolare e ordinato o come proliferazione caotica. L’universo forse finito ma innumerabile, instabile nei suoi confini, che apre dentro di sé altri universi. L’universo, insieme di corpi celesti, nebulose, pulviscolo, campi di forze, intersezioni di campi, insiemi di insiemi...». È questo incessante alternarsi di prospettive a costituire l’originalità e la brillantezza del libro, questo continuo passaggio dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, questa massima focalizzazione dell’osservazione visiva che serve a mettere contemporaneamente a fuoco (attraverso la metaforica lente dell’intelletto e dell’immaginazione) anche ciò che è invisibile e lontanissimo: Palomar è un personaggio che guarda le cose vicine come se fossero lontane e le cose lontane come se fossero vicine, e non è un caso che Calvino faccia derivare il suo nome dal californiano Mount Palomar, sede di un famoso ed importante osservatorio astronomico. Il “telescopio mentale” del protagonista ingrandisce tanto il dettaglio minimale che si presenta alla vista quanto l’invisibile che si trova a distanza siderale, utilizza l’oggetto vicino come trampolino per appropriarsi del concetto lontano, passa senza soluzione di continuità dalle erbe del prato agli ordini dell’universo, dagli esseri umani ai pianeti e alle galassie, dall’anatomia delle giraffe al funzionamento dei moti della mente… ne risulta, per il lettore, una sensazione di vertiginoso straniamento e una “sfida intellettuale” ardua da sostenere ma affascinante al tempo stesso.
E non è tutto, perché Calvino comprime nelle poco più di cento pagine di Palomar molto altro. C’è anche infatti un pervasivo senso di ironia con cui lo scrittore ammicca bonariamente alle disavventure e piccole frustrazioni del protagonista suo alter-ego (come nel caso del breve racconto in seconda posizione, Il seno nudo, brano certamente tra i più comici ed esilaranti della raccolta), coinvolgendo di riflesso anche il lettore in un clima di riflessione leggero e quasi giocoso. C’è, ancora, un rifiuto morale della grossolanità e della faciloneria, evidente già dal primo testo del libro (Lettura di un’onda) dove il protagonista viene così presentato: «uomo nervoso che vive in un mondo frenetico e congestionato, il signor Palomar tende a ridurre le proprie relazioni col mondo esterno e per difendersi dalla nevrastenia generale cerca quanto più può di tenere le sue sensazioni sotto controllo»; nello stesso brano, poche righe prima leggiamo che «non sono “le onde” che lui intende guardare, ma un’onda singola e basta: volendo evitare le sensazioni vaghe, egli si prefigge per ogni suo atto un oggetto limitato e preciso». C’è infine la continua ricerca di una libera mobilità dello sguardo (sia ottico che “mentale”) attraverso cui tentare di raggiungere una qualche forma di superiore saggezza: nel penultimo testo, L’universo come specchio, Palomar ad esempio si interroga sulla sua difficoltà di rapporti con i propri simili e sostiene che «uno prima ancora di mettersi a osservare gli altri dovrebbe sapere bene chi è lui. La conoscenza del prossimo ha questo di speciale: passa necessariamente dalla conoscenza di se stesso»; di conseguenza, conclude poi il protagonista, «non possiamo conoscere nulla d’esterno a noi scavalcando noi stessi», poiché «l’universo è lo specchio in cui possiamo contemplare solo ciò che abbiamo imparato a conoscere in noi». Parafrasando (e concludendo), possiamo sostenere che anche lo stesso Palomar in quanto libro possa essere visto come una sorta di specchio: una metaforica superficie riflettente attraverso cui Calvino, narrando le pseudo-avventure di un impacciato e comico alter-ego, ha portato a maturazione il frutto della sua lunga e personale ricerca della conoscenza, rendendocelo visibile in tutto il suo fascino intellettuale e letterario splendore.