di Lorenzo Meloni
All'ultima fatica del sudcoreano Bong Joon-Ho, vincitrice della Palma d'oro a Cannes dopo che proprio il suo apologo ambientalista Okja (2017) era stato il casus belli della serrata del festival contro i film Netflix, si sta tributando un'ovazione generale, sospingendolo sulle ali di un passaparola che lo vuole addirittura miglior film di questo 2019. Si può senz'altro capire una reazione del genere, soprattutto da chi con Parasite incontra il regista per la prima volta e non era quindi stato travolto dal treno in corsa di Snowpiercer (2013) o ancor prima sbalzato dalla sedia dal viscido mostro di Host (2006).
Se fosse possibile (o sensato) un grafico di crescita delle abilità registiche di Bong, che pure partì già fortissimo nel 2003 con lo stupendo e straniante Memories Of Murder, a questo punto la linea rossa probabilmente sarebbe uscita dalla cima del foglio come i guadagni di Zio Paperone; complice anche la scarsissima prolificità (appena 8 film in 19 anni di carriera), ogni sua prova dietro la macchina da presa è stata un marchingegno perfettamente cesellato per tenuta estetica e capacità manipolatoria, confermandolo sempre più come uno dei pochi veri grandi maestri d'immagini cinematografiche contemporanei.
In un mondo sempre più omogeneo, ma dove certe specificità culturali contano ancora, la prova migliore della sua crescita continua è proprio questo successo ininterrotto sia in patria che in Occidente, caso quasi unico negli ultimi due decenni, quando difficilmente l'avventura (perlomeno mainstream) dei grandi maestri giapponesi, cinesi o sudcoreani è andata oltre la singola hit, con l'evidente eccezione di Ang Lee che però si è prestato a Hollywood molto di più, e nonostante il coraggio dimostrato nel trattare le tematiche omosessuali in film come Brokeback Mountain, non ha però mai girato niente di così affilato, potenzialmente respingente eppure maledettamente divertente come il Nostro.
L'intera prima metà di Parasite, che si potrebbe definire "preparatoria" e invece ne è il vero cuore pulsante, è un monumento all'abilità ormai incomparabile di Bong nel fondere violenza e ironia in un'ibrido grottesco di furiosa forza dinamica, un saggio di "commedia action" nel profondo non lontano - malgrado le apparenze - dall'azione vera e propria di Snowpiercer, di cui come ben espresso dal treno rompighiaccio del titolo, condivide la capacità sorprendente di scavarsi sempre nuove strade per far breccia nello spettatore, provocandogli in questo caso stupefatte, riluttanti ma inevitabili risate.
Peccato solo che il Bong soggettista e sceneggiatore sia rimasto un po' indietro rispetto al regista. Ideologo vecchio stampo, quasi anni '70, con questo film sulla "parassitosi" il sudcoreano torna alla tematica marxista della stratificazione sociale, volendo stavolta, pur con la lente apparentemente ristretta di un quasi-kammerspiel, universalizzarla fino farne il denominatore esistenziale dell'era dei social, oltre a lambire tematiche come la follia dei leader mondiali - Kim come Trump, visto che si allude di continuo anche a all'ormai compiuta penetrazione culturale americana in Corea - e la sovrappopolazione (in linea con l'ambientalismo delle prove precedenti).
Se il guizzo inventivo per fortuna non manca mai, sorretto da un cast mostruoso su cui torreggia la scemissima e perfetta Cho Yeo-jeong - ed è quindi di diritto, vista la perfezione della prima parte, che Parasite si piazza fra i migliori film dell'anno - la difficoltà di gestire fluidamente un sostrato ideologico così importante si fa vedere nella costruzione un po' meccanica del terzo atto, un difetto che volendo si poteva già imputare a Snowpiercer, costruito a "stanze" o per livelli successivi con un'abilità che a tratti poteva sapere di artificioso e che però in quel caso si smorzava in una struttura narrativa sostanzialmente omogenea, tonitruante e martellante. Qui, negli ultimi dieci minuti possiamo quasi vedere il regista (nonchè sceneggiatore), burattinaio con un po' troppi fili per le mani, tessere furiosamente in una trama affollatissima metafora su metafora in cerca della chiusa perfetta. Curioso trovare affettazione in un film che a tratti sembra invece essersi girato da solo per forza di ritmo e fluidità..
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