di Luigi Ercolani
Delle due, l'una: o i cineasti originari della Corea del Sud hanno una bassissima considerazione del genere umano in quanto tale, oppure cercano di risvegliare l'attenzione della critica cinematografica internazionale attraverso un pessimismo in cui però non credono realmente. Non si spiega altrimenti, infatti, la consonanza di temi tra Parasite di Bong Joon-ho ed il più recente Past Lives di Celine Song.
Il vincitore dell'Oscar come Miglior Film (nel 2020, unico extra-USA a riuscirci) ha infatti proposto una visione che rappresenta l'essere umano come sostanzialmente un misero individuo che vive in condizioni pietose, e che tende ad approfittarsi di qualsiasi opportunità per elevare il proprio status sociale, meglio se vivendo alle spalle degli altri. Il film candidato agli Academy Awards del 2024, dal canto suo, ha invece portato in scena due diverse personalità, entrambe connotate da un punto di vista negativo: nella fattispecie, un inetto ed una arrivista.
Volendo servirci di una figura della cultura orientale che però, da tempo, è ormai conosciuta anche nel mondo occidentale, il protagonista maschile Hae Sung sembra essere per certi versi lo yang, ovvero il polo positivo tra i due: buono, generoso, premuroso, sensibile, è quello che non si dimentica dell'amicizia, e sembra anzi darle un alto valore. Il problema è che sembra non possedere alcun tipo di nerbo, subendo senza colpo ferire, per tutta la durata del rapporto con l'altra persona, qualsiasi decisione essa prenda, qualsiasi comportamento essa si permetta, anche il più gratuitamente noncurante.
Più la storia procede, più appare surreale il modo in cui Hae Sung non cerchi di prendere in mano la situazione, e non si ribelli all'essere trattato come un oggetto, disponibile quando serve ma altrettanto marginalizzabile, in caso subentrino necessità più impellenti. E genera anche una sorta dispiacere, non vedere alcun tipo di sussulto di dignità da parte di un personaggio che pure brilla per il suo altruismo.
A lasciar ancor più allibiti è tuttavia Na Young/Nora, l'incontestabile yin. Introiettata sin da piccola in una dimensione verticistica, di successo, è abbastanza allucinante il modo in cui si separa per ben due volte da quello che in teoria sarebbe un amico. In tali occasioni, infatti, non lascia trasparire alcuna emozione, ed anzi, sembra quasi far capolino un certo malcelato compiacimento (ancorché accompagnato da una vaga ombra di senso di colpa) nel porsi in maniera fredda, distaccata, adducendo motivazioni che riguardano progetti ambiziosi sull'altare dei quali appare non solo legittimo, ma anche naturale, il sacrificio degli affetti personali.
Un tratto di personalità che non è esagerato chiamare cinico, e che diventerà ancor più esacerbato nel corso della narrazione, quando lo spettatore, attraverso i racconti reciproci tra Nora e Hae Sung, verrà messo al corrente riguardo al percorso di vita della donna. La quale ipocritamente mostra un volto aperto e disponibile verso il (presunto) amico quando sono da soli, mentre demolisce tanto lo stile di vita di quest'ultimo quanto il paese che lei si è lasciata alle spalle ma lui no, quando invece parla con il marito.
In un quadro tanto pessimistico, non basta una passata di mano della cultura sudcoreana, come quella evocata che richiama al rapporto tra anime sia in questa vita che in quelle passate. Essa appare anzi quasi una giustificazione puerile per coprire un atteggiamento egoistico, ed irrispettoso verso il prossimo.