di Lorenzo Meloni
Accolto con clamore oltreoceano, Piccole donne di Greta Gerwig sta venendo criticato da noi per essere un film corretto ma sostanzialmente privo di personalità, mera trasposizione del classico di Louisa May Alcott che ha divertito e stimolato bambine e bambini (compreso chi scrive) per intere generazioni. Il motivo di entrambe le reazioni - quella dell'America liberal e quella un po' spocchiosa dei nostri opinionisti - paradossalmente è lo stesso: una regista donna fa un film di donne (fin dal titolo) tratto da un'autrice donna fra le più amate e celebrate, all'indomani dell'esplosione di time's up e del movimento #metoo. In parte sbagliano entrambe: certo, una più dell'altra, perchè non ci sembra affatto che Piccole donne non meriti entusiasmo. Ma tutte e due sembrano a torto archiviare la possibilità di ragioni autoriali più profonde che non la semplice adesione ai temi del romanzo e alla sua aura progressista, ragioni invece presenti e tali da porre le due opere a una certa, ragionata distanza.
Non ci addentriamo in un'analisi approfondita. Basta dire che a Gerwig - giustamente preoccupata che la sua identità di autrice possa scomparire, appiattirsi su quella dominante della Alcott e in generale sull'atmosfera pur propizia del momento corrente - preme conquistarsi uno spazio proprio di riflessione, una bolla quasi seclusa dagli avvenimenti. Piccole donne si svolge sotto i nostri occhi e la regista vi partecipa, ma contemporaneamente lo osserva, lo scandaglia, e se necessario lo contraddice. Alcott - dice una citazione all'inizio del film - scriveva storie liete per dimenticare una realtà terribile. Gerwig prende atto, ma mentre mette in pratica questo assunto espone il trucco sublimativo, e così facendo si sottrae al pericolo di fare una copia-carbone, ponendosi invece più come spettatrice critica, tesa fra partecipazione commossa e bisogno di mettere tutto in prospettiva.
Era già il dilemma del suo primo film, Lady Bird (2017) anche quello interpretato da una sbalorditiva Saoirse Ronan, anche quello improntato a un sentimento ambivalente - di chi è attratto ma contemporaneamente si sente prigioniero - nei confronti di un grande oggetto d'amore. Lì era Sacramento, la città natale dell'autrice, con la vicenda familiare della protagonista filtrata attraverso il modello letterario di Furore di Steinbeck, non a caso - proprio come Piccole donne - epopea per eccellenza sul "gruppo di famiglia" americano. Qui è il romanzo stesso della Alcott, e in particolare il modello di famiglia nucleare e di solidarietà femminile (sorellanza) in esso proposto, a costituire l'oggetto di riflessione, là dove la grandissima tematica d'attualità incrocia nuovamente il vissuto personale, affettivo, privato.
Che questa sia in parte la vicenda di un congedo, o almeno di una sintonia imperfetta e dolorosa, Piccole donne lo dimostra eccome anche a livello formale, proprio dove è più grave il mancato riconoscimento di parte della critica internazionale. Da un romanzo che fa della compattezza (narrativa, affettiva, in tutti i sensi familiare) la sua grande forza, Gerwig ha tratto un film ondivago, le cui singole molecole hanno sì aspetto di solido e un po' lezioso film in costume, ma si trovano come disperse in una soluzione liquida: l'ordine non-cronologico non è, come molti hanno detto, un vezzo d'autore per scombinare un po' le carte: è il preciso correlativo di un'idea di sradicamento e di scissione, altrettanto evidente nella scelta registica di enfatizzare continuamente la distanza; i personaggi di Gerwig sono ripresi in campo lunghissimo, o "ballano da soli" al di fuori della villa in cui si riunisce l'alta società, o ancora ascoltano suonare il piano da decine di metri, all'insaputa della musicista. Soprattutto spiano da finestre, da dietro un vetro, più o meno come Greta Gerwig - attraverso gli occhi alieni e bellissimi della sua attrice - contempla le sue Piccole donne.
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