di Luigi Ercolani
Tra i tanti teatri di guerra che ancora hanno luogo in tutto il mondo, sono due quelli che negli ultimi tempi hanno catalizzato l'attenzione dei mezzi di comunicazione di massa. Il primo è quello relativo all'Est Europa, il secondo è il nuovo infiammarsi del conflitto in Medio Oriente tra israeliani e palestinesi.
Se possiamo chiaramente seguire con apprensione l'evolversi dei drammatici eventi, è però un piccolo conforto pensare che da entrambi tali contesti geografici sia nata una piccola perla cinematografica che riflette non tanto sulla guerra, quanto sulle conseguenze di essa. Il mio vicino Adolf (Prudovsky, 2022) è infatti una coproduzione tra Polonia e Israele che, attraverso una commedia amara, vuole stimolare lo spettatore ad interrogarsi su quanto lo scenario bellico possa segnare l'animo umano.
È un paradosso che tale lungometraggio abbia come premessa a monte una teoria del complotto, per la precisione quella che vorrebbe che Hitler non si sia realmente suicidato, ma abbia trovato una qualche scappatoia per scampare alla caduta della Germania, rifugiandosi in Sud America come fecero (ed è storicamente comprovato) molti altri gerarchi del Terzo Reich. Tale base di partenza diventa ancora più surreale nel momento in cui il personaggio che potrebbe essere il Führer sotto mentite spoglie è posto nella casa accanto a quella di un ebreo polacco stabilitosi in Colombia dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
È proprio dal punto di vista di quest'ultimo, Marek Polsky, che seguiamo la narrazione. Il confronto tra l'iniziale scena bucolica di lui sorridente con la famiglia in Polonia e il suo atteggiamento scontroso e solitario negli anni Sessanta dà subito ad intendere a chi guarda quale tragedia personale lo abbia colpito, e quale rancore esso si porti dentro non solo verso quanti gli hanno portato via una fetta consistente della sua vita, ma anche nei confronti dell'umanità nel suo complesso.
L'arrivo del nuovo vicino, se già di per sé lo infastidisce a causa della sua volontà di costruire uno steccato tra sé e il mondo, diventa intollerabile nel momento in cui Marek apprende che il nuovo venuto, il signore Herzog, è un tedesco, quindi già di per sé, nella visione del primo, colpevole per quanto il protagonista ha dovuto patire. Le prime schermaglie tra i due convincono Polsky di trovarsi di fronte ad Hitler in persona, e da lì diventerà ferocemente determinato a dimostrare di avere ragione, compiendo ogni sforzo possibile per assicurare alla giustizia il presunto criminale di guerra.
Man mano che indaga, che cerca di stanare il micidiale avversario, Marek scopre tuttavia elementi che ora confermano, ora smentiscono, la sua idea, trovandosi a dover mantenere un atteggiamento ambiguo non solo nei confronti di Herzog, ma anche verso sé stesso e le sue convinzioni. E se è vero, come cantava Francesco Guccini, che “I vecchi subiscon le ingiurie degli anni/Non sanno distinguere il vero dai sogni”, lui stesso piano piano si accorge che questa ricerca per portare alla luce la verità altro non è che un tentativo di riparare, almeno in parte, la tragedia subita sulla propria pelle.
Il mio vicino Adolf è dunque un'opera che invita a non lasciarsi ossessionare dalla vendetta, ma ad amare tanto il ricordo di quanto si è perso, quanto il concreto di ciò che invece è rimasto. Un atteggiamento fondamentale adottare, specie là dove le armi ancora non hanno smesso di tacere.