di Maria C. Fogliaro, 22 febbraio 2017
La grande eredità del pittore fiammingo, pienamente inserito nella cultura italiana
Un incontro fatale, quello fra Pieter Paul Rubens (1577-1640) e l’Italia. Nella penisola il pittore fiammingo arrivò a cavallo nel 1600, e − dopo aver servito, anche come diplomatico, Vincenzo II Gonzaga, duca di Mantova − sempre a cavallo ripartì nel 1608 per far ritorno in patria. Otto anni di intensa formazione, che lo iniziarono alla conoscenza dei maestri italiani del Rinascimento: Tintoretto, Tiziano, Veronese e il meglio dell’arte veneta; ma anche Raffaello, Michelangelo, Correggio e l’ambiente romano dei primi anni del secolo. Un tempo fecondo, nel quale respirò da vicino la cultura classica, e conobbe le esperienze, a lui coeve, di Annibale Carracci e, soprattutto, di Caravaggio. Otto anni che, a loro volta, lasciarono un segno profondo nella nostra cultura: non solo per i lavori che il maestro produsse, ma anche per l’influenza esercitata sugli artisti di una generazione più giovane e sulla nascita del barocco in Italia.
Dell’eredità di Rubens nell’arte italiana si fa viva esperienza visitando, fino al 26 febbraio a Palazzo Reale a Milano, la rassegna Pietro Paolo Rubens e la nascita del Barocco, nella quale per la prima volta sono messe a confronto, in quattro diverse sezioni tematiche, numerose sue opere con i lavori di artisti italiani della generazione immediatamente successiva (Bernini, Pietro da Cortona, Domenico Fetti, Lanfranco, Luca Giordano, Salvator Rosa), che in Rubens trovarono l’impetuosa energia di una creatività nuova, e a lui guardarono come a un modello rivoluzionario cui ispirarsi. Perché è proprio al pittore di Anversa, e alla sua originale rielaborazione dei modelli e dei temi classici e dei capolavori italiani, che si deve l’affermazione dello stile grandioso e magniloquente che dà inizio alla rivoluzione barocca.
Si comincia con gli accostamenti fra i ritratti «parlanti» di Rubens − come il Ritratto di Vincenzo II Gonzaga (1604-1605) o il Ritratto della figlia Clara Serena (1616) − al Ritratto di fanciullo (1623-1624) di Bernini o alla Fanciulla addormentata (1617-1620) di Fetti: tutti testimonianza di un nuovo modo − che da Rubens discende − di intendere il ritratto, che deve consentire un’osservazione partecipante, capace di cogliere e penetrare i moti dell’animo.
L’itinerario espositivo entra, poi, nel vivo del dialogo reiterato che l’artista ebbe con il mondo antico, da lui assorbito in maniera vitale. Come fonte di virtù civili e coraggio, e serbatoio di citazioni mitologiche, da un lato. Come universo da rivoluzionare e da proiettare nella contemporaneità, anche mediante una nuova concezione dinamica dello spazio, dall’altro. Lo stesso sconvolgimento è compiuto nelle opere a soggetto sacro, con i santi rappresentati in modo solenne, come eroi del mondo antico, e le sante simili a matrone romane. Questi sviluppi sono evidenti in: Seneca morente (1615-1616), a confronto con l'Erma dello Pseudo-Seneca dei Musei Capitolini; Compianto su Cristo morto (1603) a confronto con una copia di Alessandro morente attribuita a Francesco Ferrucci detto del Tadda (1497-1585); Cristo risorto (1615-1616) ispirato al Torso del Belvedere; diverse versioni del mito di Ercole; e, soprattutto, Maddalena in estasi (1625-1627), con la luce di taglio di derivazione caravaggesca, accostata al volto di Santa Teresa D’Avila (1650 circa) di Bernini; e l'Adorazione dei pastori (1608), l’opera probabilmente più importante del soggiorno italiano.
Il confronto fra la portata rivoluzionaria dell’impresa artistica di Rubens − con la sua straordinaria capacità di stravolgere il confine fra spazio pittorico e spazio fisico, e di catturare lo spettatore con pochi tratti dinamici e impetuosi − e i capolavori di artisti più giovani ha permesso alla curatrice Anna Lo Bianco di ricomporre con coerenza il filo che lega «l’Omero della pittura» (come lo definì Delacroix) alla cultura del nostro Seicento, e di considerare Rubens, come già fece Bernard Berenson, un pittore pienamente italiano. Un importante contributo alla conoscenza di un artista amato e ammirato in vita, e ampiamente celebrato dopo la morte fino a oggi, di cui all’esposizione di Palazzo Reale bisogna senza dubbio dare merito.