di Lorenzo Meloni
Scary Stories To Tell In The Dark è un titolo che potrebbe non dire molto in Italia, ma di assoluto culto in USA, dove la generazione cresciuta negli anni '80 è stata segnata dalla serie letteraria horror di Alvin Schwartz non meno che dalle leggendarie illustrazioni di Stephen Gammell, generando nel corso del tempo un fandom appassionato e nostalgico; il principale forse, ma non il solo bersaglio di questo adattamento di Andrè Øvredal (Autopsy), attento a ritagliarsi uno spazio in quel magma di revival che negli ultimi anni soprattutto col fenomeno Stranger Things ha saputo calamitare fasce di pubblico anagraficamente diversissime, primi fra tutti ragazzi che negli anni '80 non c'erano ma che non per questo subiscono di meno il piacere di sognarli, e di sognarne soprattutto l'immaginario pop.
Un brand così forte, efficace in chiave di ricordo giovanile, si lega quindi alle suggestioni di questa ondata nostalgica, di cui porta tutti i segni: un'idea orizzontale di saga, che miri alla costruzione di un universo espandibile e nuovamente esplorabile, ma anche l'ambientazione rurale (alla It), la nitidezza azzurrina dei prodotti spielberghiani anni '80, il gruppo di adolescenti, il forte protagonismo femminile, un tono da racconti attorno al fuoco che indovina la giusta atmosfera tra infantile e autenticamente inquietante. Degli anni '80 resuscita soprattutto un prodotto tipico, quell'horror antologico di cui è maggior esponente Creepshow (1982) della coppia George A. Romero-Stephen King, con però un'idea di racconto a puntate più organico, dove le storielle del terrore fanno tutte capo a una trama centrale in cui i protagonisti tentano di risolvere il secolare mistero attorno alla figlia reclusa, pazza e forse strega di un'antica casata nobiliare..
Se al bravo Øvredal va riconosciuto un talento "classico" per il sangue e le atmosfere gotiche capace di elevare Scary Stories al di sopra della mera riproposizione oleografica (qualcuno lo ha definito "un vietato ai minori travestito da horror infantile"), a riconoscersi è anche la mano del produttore esecutivo Guillermo del Toro, sia nell'amore per la visualizzazione iperdettagliata e quasi tattile del mostruoso, sia per un afflato politico che in un certo senso rende il film uno dei pochi calchi odierni "a tutto tondo" del New Horror anni '70-'80, dove alla sfrenata fantasia visiva e alla bellezza e peculiarità delle atmosfere si univa spesso un'evidente vena polemica e satirica nei confronti della contemporaneità americana.
A tal proposito il maggior nume tutelare sembrerebbe proprio quel George A. Romero il cui La notte dei morti viventi (assieme a Rosemary's Baby di Polanski) del New Horror fu il grande Big Bang, e che i protagonisti - siamo nell'inquieto 1968 - vanno a vedere in un drive-in. Romeriano anche l'attacco, affidato alle stupende note con cui Jimmy Page apre la Season of The Witch di Donovan, pezzo immortale che compariva - e dava il nome - a un altro e più sottovalutato film del papà degli zombie. Ma Scary Stories non si limita all'omaggio: il suo sembra piuttosto un tentativo di iniettare la forza polemica del maestro (che non manca neanche alle opere più divertite, come appunto l'antologico Creepshow) nella dimensione più avventurosa/esplorativa del revivalismo, a cui senza dubbio appartiene ma che contemporaneamente interroga per seminare riflessioni sulla dimensione pervasiva del racconto, sul nostro essere continuamente immersi in narrazioni cinematografiche, televisive e giocoforza anche politiche.
Come in La notte dei morti viventi, dove faceva da beffardo commentario alle vicende zombesche, anche in Scary Stories la TV è sempre accesa, e di solito trasmette comizi di Nixon (siamo in piena campagna elettorale), dove il futuro presidente promette un'amministrazione molto diversa da quelle che hanno condannato una generazione di giovani americani all'inferno del Vietnam. Se a Romero la presenza ubiqua dell'apparecchio televisivo serviva per aprire un beffardo commentario sulla follia e la violenza di quei giorni, Øvredal e del Toro lasciano in sottofondo le moine e promesse all'America del colpevole dello scandalo Watergate quasi come un mantra che metta in guardia dal potere ambiguo del racconto, da legare direttamente alle vicende della trama principale del film, in cui la sua capacità di obliare e propiziare tragedie storiche (con uno dei ragazzi che rischia la chiamata alle armi) si riflette nell'enfasi sul razzismo di una provincia americana mai del tutto guarita da isterie di invasione - nel mirino ovviamente Donald Trump e le sue politiche antimessicane - oltre a trovare una riuscita metafora fantastica nel legame fra le due protagoniste, Strega buona (la giovane protagonista appassionata di racconti gotici) e Strega cattiva, all'insegna di un senso di colpa indotto che vorrebbe spezzare la loro creatività di donne libere, e che andrà spezzato a sua volta per dimostrare che le storie feriscono, le storie guariscono..