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Senna



di Lorenzo Meloni

Secco e cronologico, Senna (2010) nasconde dietro l'apparente impassibilità la passione di un racconto mitologico in piena regola, più o meno come il suo protagonista bruciava di un fuoco invisibile, nascosto dietro un volto incapace di incresparsi in qualcosa di più di una vaga malinconia. Fra i molti approcci possibili e solo sfiorati (una biografia che mostrasse i dietro le quinte, la descrizione del culto circostante la sua figura in Brasile, l'approfondimento degli aspetti più "politici" della F1) sceglie di raccontare il pilota attraverso le sue gare, i suoi commenti alle stesse e i ricordi di pochi intimi, ritenendolo il modo migliore per sondare i vari lati di un carattere che è parte del mito quanto i Gran Premi vinti: il mistero di una serietà e concentrazione assolute, tipiche di un uomo molto più anziano di quanto Senna fu mai; il portamento di un principe - quell'educazione squisita da figlio della buona borghesia brasiliana che tante antipatie gli guadagnò anche da noi in Italia; la fede fervente del suo popolo, con l'aura messianica delle sue vittorie ingigantita e contemporaneamente nobilitata, anche ad occhi non credenti, dalle prove sovrumane a cui seppe sottomettere il suo corpo, da quel continuo autoridursi di chi si considera strumento di un principio più alto. Tutto questo non è strombazzato, ma si insinua quasi maieuticamente dopo un'ora e quarantacinque passata a fissare il mondo dell'abitacolo della sua macchina. Se c'è un obiettivo che il regista sembra porsi è far incontrare uomo e mito, da una parte confermando in pieno il secondo (che come dicevamo è essenzialmente mito di personalità), dall'altra restituendo carne e sangue al primo, vera e propria transustanziazione di quello che inevitabilmente rischia di ridursi a santino o statua di marmo, e che invece il documentario di Asif Kapadia riscopre "vero uomo e vero dio". Senna attraverso Senna dunque, abbracciando il suo punto di vista lucido e sincero dalle prime vittorie sui kart e fino agli ultimi istanti possibili, quelli delle terrificanti immagini in semi-soggettiva riprese dalla telecamera della sua vettura pochi secondi prima dello schianto fatale al Tamburello. La forza del documentario è tutta nell'accumulo, nella precisione di un ritratto sobrio e stratificato che raramente si concede virtuosismi cinematografici, eppure contiene almeno due intuizioni visive folgoranti: la prima – siamo dopo i due incidenti che a Imola ‘94 precedettero quello di Senna, causando fra l’altro la morte di Roland Ratzenberger - il ralenti di un telone che scende a coprire una macchina come un sudario, premonizione della sorte annunciata, evitabile, insensata del pilota brasiliano. La seconda legata alla testimonianza del medico che lo soccorse sulla pista, e che vedendolo sussultare per l’ultima volta sostiene di essere stato scosso per un attimo nel proprio ateismo, “come se in quel momento la sua anima ci avesse lasciati”. E allora è da plauso quello stacco di montaggio dalla soggettiva di Senna nell’abitacolo al totale della macchina che si schianta, terrificante eppure trascendente reductio ad unum dell’intero film, che dopo averci fatto abitare in lui fin quasi a sentire di conoscerlo si invola anch’esso dal suo corpo ferito.

(disponibile su Netflix)



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