C'è un'immagine verso la fine di Sulla mia pelle che in un contesto del genere riuscirebbe facile, sensazionalista 99 volte su 100. Ilaria Cucchi guarda da dietro i vetri dell'obitorio il corpo di suo fratello avvolto in un telo bianco, quasi in un sudario. A un certo punto appoggia una mano al vetro come a cercare di raggiungerlo, ma fra lei e Stefano c'è questa gabbia, un muro trasparente..
È esattamente il paradosso che fa la riuscita del film, cronaca dettagliatissima di un "pasticciaccio brutto" in cui però Alessio Cremonini (già sceneggiatore per Saverio Costanzo, e si vede) più che cercare una verità processuale, urlata e già carica di una rabbia un po' unidirezionale, sceglie di far luce su di noi, sul mistero dell'indecidibile in faccia all'ovvio.
Il peso del ritratto è tutto sulle smagrite spalle di Alessandro Borghi, straordinario per come si ripiega progressivamente in sè stesso senza patetismi, senza far dimenticare (nel tocco lieve, nella postura, nella voce sottile) che questo ragazzo era - già prima della sua terrificante ordalia - una foglia al vento, ma investendolo sempre più di un'insospettabile lucidità morale via via che le forze mancano e la luce non viene.
"Gli ultimi 7 giorni di Stefano Cucchi" sono pieni di incontri, di carabinieri e di guardie, medici e infermieri; nessuno manca di riconoscere le tumefazioni e i lividi sul viso di Stefano ma per un motivo o per l'altro, per codardia o per i ripetuti rifiuti del ragazzo, se lo lasciano scivolare accanto.
Cremonini non punta al film-denuncia sul caso Cucchi, tutta la verità che ci serve sta in quel viso devastato che negli ultimi dieci anni si è visto un po' dappertutto fra marce, inchieste tv e telegiornali. No, è ciò che in quel corpo si legge del mondo circostante a interessargli. Quasi fosse uno specchio, una mappa livida e tumefatta delle storture di sguardo, della perdita di contatto che riguardano non solo i carabinieri violenti e/o omertosi ma la stessa famiglia, che non possono non riguardare chiunque si sia imbattuto in questa storia.
Per questo - con buona pace di chi lamenta la mancanza di un nerbo diverso, alla Diaz magari - le botte fuori campo. Per questo, perfettamente conscio del potenziale iconico di quel famoso primo piano del cadavere di Stefano, Cremonini lo copia sì per qualche secondo ma sfocandolo progressivamente. È anche - Sulla mia pelle - un film su un'epoca di incertezza, in cui si urla e ci si sbraccia ma non si è creduti, in cui tutto è dubbio. In cui anche una cosa semplice come la morte violenta di un ragazzo non si riesce a strappare a un disgustoso limbo.