di Luigi Ercolani
La città è la stessa, New York. Ed anche la classe sociale, quella benestante che guarda dall'alto in basso tutto il mondo con malcelato disprezzo tanto delle istituzioni quanto del ceto medio, è la stessa.
A cambiare, semmai, è il successo personale. Se non si può negare, infatti che ci siano delle somiglianze tra l'avvocato Roy Cohn e il figlio d'arte Kendall Roy, a cominciare dal nome, è altresì evidente che tra i due personaggi magnificamente interpretati da Jeremy Strong intercorrano delle differenze, tali da renderli tuttavia due lati della medesima medaglia.
Lo spregiudicato giurista di The Apprentice è infatti un vincente, uno squalo che si muove nelle torbide acque della New York più abbiente, aggressivo e rapace, che porta a casa un risultato a qualsiasi costo, fosse anche illecito. L'egocentrico rampollo di Succession, viceversa, è una figura che rimugina troppo e non possiede alcun killer instinct, e proprio a causa di ciò ogni suo proposito è destinato a naufragare.
Paradossalmente, il Roy Cohn del lungometraggio cinematografico sarebbe stato il mentore perfetto per il Kendall Roy della serie televisiva HBO. O, se vogliamo metterla in altri termini, Donald Trump qui assume i contorni di ciò che il secondo non ha mai avuto la forza e l'incisività di diventare.
Il parallelismo tra queste due produzioni potrà sembrare forzato, specie per chi fisiologicamente non ha avuto modo di guardare Succession. Eppure questa resta una cornice ottimale per comprendere pienamente The Apprentice, soprattutto in quegli aspetti che trattano l'empireo dorato e senza scrupoli della finanza newyorchese.
I punti di partenza, in questo senso, sono solo apparentemente distanti. È vero che la prima è una storia reale, ancorché romanzata, mentre il secondo è un mondo fittizio, ma è bene ricordare che quest'ultimo è ispirato alla parabola Rupert Murdoch, il quale (e qui il cerchio si chiude) del vero Roy Cohn fu cliente, al punto che pare che sia stato proprio l'avvocato a presentare Donald Trump e il magnate dei media.
Così, tra melodramma di fatti davvero avvenuti e narrazione che prende spunto dal reale, il confine è sottilissimo. Risulta perciò non solo possibile, di conseguenza, arrivare a stabilire un dialogo tra mondi che superficialmente potrebbero apparire inconciliabili tra loro.
Molti, sia critici di Trump che suoi sostenitori, avevano definito The Apprentice come la produzione critica definitiva nei confronti del tycoon. La realtà, invece, è che l'ex-presidente statunitense qui non assume affatto quei contorni di “Peccato Originale” che sono viceversa tipici delle descrizioni che ne fanno i media a stelle e strisce appartenenti all'area liberal.
Anzi, per essere un'opera dichiaratamente sfavorevole a quest'ultimo essa lo rappresenta in maniera fin troppo umana. Eccessivo sì, gradasso sì, infedele sì, tagliente sì, ma allo stesso tempo dinamico e intraprendente, sognatore e multitasking, e con drammi personali che invitano ad assumere un'ottica più profonda, più intima.
In sostanza, Donald qui finisce per incarnare l'American Dream. E volutamente o meno, Ali Abbasi lo ha di fatto tratteggiato come il frutto più naturale di un ambiente, la upper class statunitense, che è moralmente corrotta in quanto dedita unicamente al profitto, senza alcun riguardo per i più bisognosi.
La critica del regista, in questo senso, è alquanto sferzante: se Trump è un mostro, è un mostro che è stato generato nella pancia degli USA stessi. Ed è su questo ciò su cui il Paese dovrebbe riflettere.